di Marianna Mandato – Ma che gioia! È stata proprio una gioia incontrarti. Sei una vera gioia per me.
Gioia. Tutti, ma proprio tutti sappiamo di che si tratta. Eppure, siamo veramente sicuri che quando affermiamo “gioia”, sappiamo esattamente che cosa stiamo dicendo?
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Che cosa indica la parola gioia? Anche se scuotiamo la testa come a sottolineare l’ovvietà di quanto la parola comunica, siamo quasi certi che non sapremmo facilmente spiegarla a un bambino che non ne conoscesse il significato.

Facciamo una prova: spegniamo i nostri perenni aiuti elettronici e proviamo a definirla senza il supporto delle solite ricerche on line.
Ci accorgeremo subito di quanto risulti difficile riempire questa parola di significato, senza ricorrere a degli esempi. Che quasi sempre riporteranno ad uno stato emotivo, ad una emozione, e a un corrispondente stato corporeo.
Sicuramente, infatti, se ne percepisce o se ne ricorda immediatamente il senso a livello fisico, corporeo, ma resta difficile trasmettere a parole quello stato.
Per trovare il bandolo della matassa allora, procediamo per gradi.
Qual è l’origine di questa parola? Come è nata, quali sono i genitori della parola gioia?
I suoi antenati più lontani sono il sanscrito e l’indoeuropeo. Il primo con la radice gai, da cui il verbo gāiati.
Ma, reggetevi forte, sapete che cosa significa questo verbo? significa nientemeno che cantare.
La radice indoeuropea invece è gaud, che mette insieme ga che voleva dire alto e ud, che voleva dire ancora una volta canto.
Appare abbastanza evidente che la parola indicava principalmente un canto “alto”, elevato. Senza dubbio in forma di lode o di esultanza, per far emergere, per manifestare uno stato interiore particolare, simile alla felicità.
Cosa c’era di meglio del cantare per dare consistenza a quello stato di benessere interiore?
Capita spesso di sentire il bisogno di cantare per esprimere la gioia che si sente interiormente. Capita spesso di volerla condividere in questo modo.

Ma come è arrivata a noi la parola gioia? Ancora una volta colpa del latino.
I latini, però, e qui occorre fare attenzione, presero a prestito le radici più antiche sanscrite ed indoeuropee ma le usarono per dar forma alla parola gaudium, che al plurale suonava gaudia.
Gaudium ha la stessa radice indoeuropea di gioia ma dà i natali anche alla nostra parola “godere”. Che non è più soltanto un elevare un canto, ma esprime forme di piacere, di intima soddisfazione, che appagano l’animo e il corpo.
Furono i francesi a prenderla in prestito dai latini e a farne uso per primi, trasformandola nella loro joie. La joie de vivre, la gioia di vivere, di cui tanto spesso si sente parlare, sta ad indicare proprio il godimento della vita. Ed è esattamente dalla joie dei francesi che abbiamo poi ricavato la nostra gioia. Diversa dal gaudio.
Detto questo, ancora non risulta del tutto chiaro che cosa voglia indicare esattamente questa parola. Va aggiunto per forza qualcosa.
Chiediamoci allora, quali altre parole si uniscono a dare forma a questo palloncino “gioia” e ce ne fanno capire il senso? Detto altrimenti, qual è la sostanza di cui si riempie la parola gioia perché possa prendere la sua forma.
Ecco, sicuramente allegria, soddisfazione, felicità, esultanza, entusiasmo, gaudio, appagamento, benessere, voglia di ridere, positività, godimento, giubilo.
All’apparenza sinonimi, tutti di una grande bellezza, sono invece diversi aspetti che solo messi insieme le restituiscono il suo senso completo.
Felicità, ad esempio, non è gioia. È invece vero che la gioia alimenta la felicità. Così come allegria è un aspetto della gioia. Tantomeno l’entusiasmo, da solo, può considerarsi gioia.
Ci siamo quasi. Proviamo a mettere insieme tutti i pezzi. Ancora non ci siamo fatti una domanda fondamentale. Quella che ci facciamo ogni volta per ogni nuova parola: può dalla parola gioia derivare un verbo?
Certamente, gioire. Deduciamo, dunque che la gioia per realizzarsi nella realtà, per avere consistenza, richiede il nostro aiuto. La nostra azione. Non possiamo stare fermi. Meglio, possiamo essere gioiosi da fermi ma dobbiamo attivare qualche forma di azione perché possa prendere consistenza. E la nostra azione consiste nel manifestarla.
Che cosa vuol dire?
La gioia è qualcosa che viene da dentro. Che abbiamo dentro. Cresce in noi e ci caratterizza.
È uno stato interiore, un canto che esplode da dentro, che si eleva, si diceva, una specie di fuoco d’artificio che poi risulta visibile a tutti e udibile da tutti.

La gioia è emozione. Muove l’”emo”, il nostro sangue, e ci costringe a renderla visibile.
La gioia infatti si vede. Così come si sente un canto. È legata ai sensi. Non si capisce bene in quale punto ma ce la sentiamo addosso. Non può essere nascosta. Modifica anche la nostra mimica, il nostro sguardo, il nostro sorriso.
E una volta manifestata, risulta contagiosa. Insomma, guardare i fuochi d’artificio non ci lascia indifferenti. E del pari non ci lascia indifferenti ascoltare e vedere la gioia di qualcuno.

Concludendo, gioire vuol dire che noi abbiamo proprio il compito di far venir fuori quel canto interiore che chiamiamo gioia.
Lo dobbiamo “elevare”. È un inno che canta sé stesso. È un’intima soddisfazione che diviene pubblica.
Per finire in bellezza, abbiamo chiesto a un bambino “che cosa ti fa venire in mente la gioia?”
La risposta è stata “quanto è bella la vita”.
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