di Marianna Mandato – Quante volte ci hanno detto “esprimi un desiderio!”, “se è un tuo desiderio allora…”. Oppure siamo noi a dire “desidero essere…”, “sei il mio desiderio più grande”, “desidero avere o averti”. Accidenti, manca il fiato.
Si ha desiderio di una persona. Di una cosa. Di una situazione.
Desiderio, una semplice parola dall’apparenza un pochino sfuggente (e qui occorrerebbe fare un sospirone), che contiene al suo interno tante altre belle parole a darle significato.
Da sola, la parola desiderio non riesce a spiegare che cosa muove l’essere umano che ne è preda. Ma lo muove eccome. Perché una cosa è certa: il desiderio vuole trasformarsi in realtà.
Quel verbo che deriva da lei, desiderare, ci trascina verso la soddisfazione della pulsione che ci anima.
Ci muoviamo per realizzarla. Ormai lo sappiamo. Il verbo implica l’azione.
Tutte le parole, va ricordato, hanno un loro “albero genealogico”, proprio come noi, lunghissimo o cortissimo, dipende da quanto tempo circolano nel mondo. Di qualcuna si trovano poche tracce, purtroppo, come fosse un orfanello con parenti incerti.
La parola desiderio ha una splendida origine un tantino lontana, ha radici latine. Molti, al solo sentir parlare di “latini” pensano “ah beh, io non ho fatto il liceo, roba che non mi riguarda”. No, errore, le radici latine riguardano tutti. O almeno tutti coloro che in italiano possono o decidono di desiderare. Con quella parola. Alzi la mano chi non dice o ha mai detto “lo desidero”.
De-sidus, ecco qua, l’espressione latina è de-sidera. Che vuol dire, si pensi un po’, senza astri, senza stelle.
Wow.
E come si potrebbero mai concepire delle notti senza stelle? Una notte senza stelle è buia, molto buia. Così lontano da noi, quel cielo scuro scuro. Ai più piccini farebbe anche paura. E diciamoci la verità, anche a molti tra i più grandini, specialmente a quei marinai che tanto tempo fa viaggiavano senza punti di riferimento. Quando ancora non c’erano le bussole.
Insomma, come si può vivere senza stelle, senza la luce nella notte, senza la notte di San Lorenzo, orrore, senza quel chiarore che fa sentire al sicuro, che fa sorridere soltanto alzando lo sguardo?
In tutti i casi, il desiderio è qualcosa che fa pensare a una mancanza che va colmata. Il cielo senza stelle. Una mancanza inimmaginabile. Quella parola va proprio riempita. E quel qualcosa va cercato, va trovato.
Occorre fare luce.
Ed ecco allora che dentro la parola desiderio fanno capolino i suoi contenuti, la voglia, la smania (spesso di notevole entità), la pulsione emotiva, sessuale, l’istinto, il sogno, la speranza, la passione, il possesso, la fantasia e l’immaginazione, ma soprattutto, la soddisfazione e il benessere.
Il desiderio si muta in verbo. Io sto desiderando. Desiderare mi costringe ad agire per appagare il desiderio. In pratica, se voglio che il mio desiderio si avveri, allora desidero. E quindi agisco. Devo agire.

Difficile che esca un genio della lampada e agisca per noi. Non possiamo dire a una persona “sei il mio più grande desiderio” e finirla lì. Se quella persona la desideriamo veramente, allora dobbiamo agire, altrimenti ci prenderà per scemi. Stessa storia se desideriamo raggiungere la cima dell’Everest.
Un bambino dice a Babbo Natale che desidera un regalo e aspetta che il simpatico vecchietto glielo porti. Il bambino desidera fermo. Ma senza Babbo Natale, qualsiasi persona non può desiderare qualcosa o qualcuno e aspettare che gli venga regalato.
In realtà, l’essere umano fa un tantino il birbone. E che cosa fa? Spesso scaccia l’azione vera, reale, in un cantuccio, soffoca il suo movimento naturale e la sostituisce con l’azione finta, quella che vive solo nella mente, che è fatta soltanto di pensiero (simile a una realtà virtuale).
In sostanza, pensiamo di agire realmente ma a muoversi è solo il pensiero.
Così, desiderare trascina spesso la mente in un vortice di fantasie che ha come risultato la realizzazione e la conseguente riproduzione di “filmini mentali” . E questi hanno un potere straordinario: sostituiscono la realtà e l’azione reale e ci convincono di cose che non esistono. Ci fregano insomma. Ci limitiamo a desiderare da fermi.
Anche la parola desiderio, è in qualche modo corporea. Ce lo dice lo stomaco. Già, lo stomaco di chi desidera spinge a fare qualcosa di reale. Lo stomaco pulsa, plasma un vuoto e il corpo freme, sente il bisogno di muoversi. In particolare se l’oggetto del proprio desiderio è una persona. Quando la mente dimentica che esiste il corpo che si muove nella realtà, allora qualcosina stona.
Il desiderare è incompatibile col dover aspettare (la parola attesa, non è tra i suoi contenuti) mentre, proprio l’attesa, l’assenza o i “no” (che fanno persistere l’attesa), lo stimolano, snervando spesso il soggetto pensante, rendendo l’oggetto del desiderio maggiormente desiderabile. Aumentando l’esigenza di agire.

In pratica, l’attesa e l’assenza del desiderato, oltre ai “no”, assumono i contorni di una strategia per dare una spinta all’azione.
Appagare il proprio desiderio riporta ad una situazione di benessere psicofisica.
Non appagarlo, non raggiungere l’oggetto del desiderio, è una specie di condanna a provare rabbia, sconforto e probabilmente dolore (come per l’amore arrabbiato quando non incontra colui o colei che si ama).
Ci consoliamo pensando che passi col prossimo desiderio.
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