di Marianna Mandato – “Dai, sii buono almeno a Natale!”. Già. Si dice che a Natale si debba essere tutti più buoni. Almeno a Natale. Perché si mette in giro una simile convinta affermazione, perché “almeno” a Natale? Con quale consapevolezza si può affermare una cosa del genere?
Ascolta “I significati delle parole: buono e bontà” su Spreaker.
Come nel caso della bellezza, tutti sappiamo immediatamente che cosa voglia dire buono ma non sempre siamo in grado di spiegarne il perché.
Può essere buona una persona. Un bambino potrebbe essere stato buono durante il giorno a casa o a scuola. Anche un cibo può essere buono. Può essere buona la prima di una ripresa cinematografica. Buona è anche una dizione, una pronuncia. Buona è la reputazione, buono è un voto. Potrei anche indossare il vestito buono per una cerimonia. Ci sono le buone intenzioni e le buone maniere. Buona è una giornata.
Insomma, l’elenco potrebbe continuare per un buon lasso temporale. Ed è buono anche il lasso temporale, dunque.

Le cose iniziano a sembrare ingarbugliate, ma, nessuno sgomento, sbrogliamo subito la matassa.
Che cosa esprime la parola buono, che cosa ci vuole dire, di cosa si riempie per prendere consistenza?
A dare sostanza alla parola buono accorrono parole che spesso non penseremmo proprio di mettere insieme.
Giusto, prima di tutto, bello, generoso, altruista, accogliente, gentile, cortese, sensibile, calmo, onesto, moralmente equo, ben fatto, elegante, composto, tranquillo, utile, efficiente, idoneo, rispettabile, capace, conveniente, vantaggioso e, pensate un po’, felice.
Già, felice. La parola buono affonda le proprie radici nel latino bonum. Facile immaginarne la traduzione. Ma bonum, a sua volta, deriva da una parola ancora più antica: duonus, proprio con la “d”, contrazione di divonus che voleva dire appunto felice, e la cui radice sanscrita (div) era la stessa che dava vita alla parola “divino”.
Perbacco. A cosa si può aspirare ancora? Ed è particolare notare quanto la parola duonus assomigli al nostro “dono”.
Sembrerebbe in effetti che per essere buoni, occorra essere felici, e che per essere felici si debba essere divini e una specie di dono.
Non dimentichiamo inoltre, e lo abbiamo già detto nell’articolo sulla parola bello, che buono e bello erano un’unica parola (bonus). Si pensi dunque che mix di positività. Meglio di un cocktail afrodisiaco.
Ma tutto questo cosa implica rispetto ai nostri comportamenti in presenza di questa parolina così semplice come “buono”?
Perché sembra così difficile essere buoni? Che tipo di impegno richiede? E perché si spera che almeno a Natale tutti lo siano un pochino di più?
Per cercare di capire, facciamoci la solita domanda: può dalla parola buono derivare un verbo?
No, “buonare” non esiste nella nostra lingua. Semmai, sua derivata è un’altra splendida parola: bontà. Ma, prima di dire qualcosa sulla bontà, occorre maggior chiarezza, perché, anche senza “buonare”, qualche verbo pare faccia comunque capolino.
Se è vero che “buonare” non esiste, è altrettanto vero però che possiamo dire a qualcuno “sii buono”.
Ecco, buono per realizzarsi, per trovare la sua ragion d’essere, chiede aiuto al verbo essere. Che non a caso si chiama ausiliare. Porta ausilio, aiuto, a chi da solo non riesce o non possiede questa caratteristica.

Insomma, nonostante la parola buono non implichi l’azione diretta, implica però quella indiretta.
E che significa? Che invece di agire verso l’esterno dobbiamo agire verso l’interno, per realizzarla. Detto in modo alternativo, l’ausiliare essere aiuta noi stessi nell’impresa di manifestarci “buoni”.
Essere buoni indica un movimento che parte da noi verso noi stessi e che dunque realizza in qualche modo quello che noi dobbiamo possedere per avere un certo tipo di sostanza.
Il nostro essere buoni, poi, inevitabilmente produrrà effetti anche sugli altri e sul nostro ambiente circostante. In pratica, il movimento, la nostra azione, sarà diretto verso noi stessi e gli effetti sull’esterno saranno una conseguenza.
Nel caso dei verbi transitivi, come ad esempio “desiderare”, l’azione è diretta fuori di noi: per realizzare il desiderio, devo agire fuori da me stesso.
“Essere”, e il noto Eric Fromm che col suo “Avere o Essere” ha fatto il giro del mondo lo sapeva bene, implica in qualche modo metterci se stesso.
Fare il buono è diverso da esserlo. Essere buono sta proprio a suggerire che se stesso deve incarnare la bontà.
Eccoci, bontà. Che contiene il suo intenso sentimento del benvolere, della benevolenza, della gentilezza d’animo e di cuore. Possedere bontà vuol dire possedere le qualità e le capacità del buono.
Ed ecco svelato perché qualcuno mette in giro la voce che almeno a Natale occorrerebbe essere più buoni. Natale è il periodo che personifica la nascita dei buoni sentimenti, dell’amore, della pace, della comprensione, dell’altruismo, e buono è agli antipodi della guerra, delle controversie, dell’incomprensione.
Ovviamente, quando è un oggetto, concreto o astratto che sia, ad essere “buono” avverrà più o meno la stessa cosa. Un dolce, per essere buono, parte dall’interno, con buoni ingredienti.

E se auguriamo a qualcuno “buona giornata!”, ci aspettiamo che quella giornata possa contenere le qualità della parola “buono”.
Buona giornata a tutti allora!
Ascolta il podcast:
Ascolta “I significati delle parole: buono e bontà” su Spreaker.