di Marianna Mandato – “Ma tu sei felice?”, “ti senti felice?”, “io sono ancora alla ricerca della felicità”. Tante volte sentiamo dire frasi come queste e pensiamo di capire immediatamente che cosa vogliano dire. E ci sembra anche normale che qualcuno affermi che stia cercando la felicità.
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Ma perché dobbiamo o dovremmo “cercarla”? Si nasconde, forse?
Ebbene, la parola “sa” che cosa indica. È nella sua essenza “saperlo”. Ma noi invece, lo sappiamo veramente? Meglio, lo abbiamo capito? Con quale consapevolezza usiamo le parole felice e felicità? Cosa si cela in loro quando le pronunciamo?
Beh, facile, basta cliccare su qualche motore di ricerca e cercare la definizione di felicità, dirà qualcuno. Voilà, le spiegazioni fioccano. Sono convincenti. Pensiamo “ah, ecco, ho capito”.
Sì ma, quando diciamo in modo consapevole che siamo felici, che cerchiamo la felicità, che cosa stiamo dicendo “a parole nostre”?
Se quel che si cela dentro la parola felice riusciremo a scorgerlo, allora è anche probabile che riusciremo a scorgere che cos’è la felicità che si cela nella “parola felicità”.
Per capire la felicità, con la parola che la veste, occorre intanto notare che è un derivato dell’essere felice. Andiamo allora per prima cosa a cercare i genitori della parola felice.
Siamo quasi certi che nessuno potrebbe paventare l’ipotesi che la parola felice sia figlia di genitori tristi. Di parole tristi.
E infatti, a conferma di quanto appena detto, fa capolino un’antichissima radice sanscrita: foe. Foe, a sua volta, ha dato i natali al greco fhyo nonché al verbo latino feo da cui deriva la parola latina foelix. Si può rileggere anche due o tre volte se l’effetto delle parole “sanscrito” e “latino” fa venire voglia di abbandonare la lettura di quanto segue. Sarebbe invece importante continuare, perché c’è una sorpresa meravigliosa.
Reggiamoci forte,
le parole che abbiamo appena letto volevano addirittura dire “produrre”, “generare”, “dare vita” e dunque “essere fertili“. Tanto che la stessa radice greca phyo, pensate un po’, è genitrice della nostra parola feto,
e qui occorrerebbero cori di “ohhh”, giacché tutti sappiamo un feto che cos’è.
I latini, per dire che un albero dava frutto, dicevano arbor foelix. Sì, “l’albero felice” era quello che produceva frutto. Caspita, è ovvio dedurre subito che la parola felice abbia proprio a che fare con qualcosa che produce vita. Che la genera.

Andiamo avanti e cerchiamo di capire a cosa facciamo riferimento quando diciamo felice, di cosa riempiamo la parola per darle forma.
Ovvero, si devono cercare quelle parole che accorrono a riempirla del suo significato. Quali sono le “parole gas” che danno sostanza al palloncino felice e che faranno in modo che voli oppure resti a terra.
Sicuramente
sorriso, stato di benessere, gioia, eccitazione, serenità, soddisfazione, bontà, euforia, appagamento, desiderio soddisfatto.
Insomma, un cocktail positivo di notevoli dimensioni.
Poi, facciamoci la solita domanda: può dal termine felice derivare un verbo?
Parrebbe di no. Feliciare non esiste. E come si fa allora a cercare la felicità se per essere felici non ci si può muovere? Stiamo ad aspettare che arrivi? Allora è inutile cercarla. In effetti, a farci ben caso, abbiamo appena detto “per essere felici”. Ed eccolo il bandolo della matassa.
La felicità, per realizzarsi, ha bisogno dell’ausiliare essere. Ha bisogno di aiuto.
E il verbo essere, si badi bene, indica proprio noi. Fa appello a noi per l’azione. Siamo noi ad essere felici.
Non dimentichiamo che l’ausiliare essere vuol dire anche esistere, stare o trovarsi. Siamo noi dunque che dobbiamo agire, innescare una o più azioni per essere, esistere in modo felice. Dobbiamo metterci del nostro, insomma. E il risultato sarà uno stato.

La felicità sarà uno stato del nostro modo di essere, di vivere. Ci troveremo ad essere felici. Un qualcosa che, raggiunto o verificatosi, ci farà sentire felici.
Quello stato assume una forma fisica, oltre che mentale. Una persona felice la riconosciamo. Mai come per questa parola risulta evidente un notevole coinvolgimento dei sensi.
La mimica del corpo mostra la felicità. La felicità appare, come un’emozione.
E abbiamo visto nell’articolo sull’emozione che “emo” ci sollecita a far riferimento al sangue. Dunque è uno stato che ci smuove nel profondo, che smuove la circolazione sanguigna.
Procura quel sorriso interiore che si manifesta anche all’esterno nella mimica, nella luce negli occhi, nel sorriso.
Tanto che quando diciamo “sono felice”, il nostro corpo lo sa e lo mostra. Quasi un’ubriacatura che fa sentire diversi dal solito. Per questo chi è felice lo sa e chi non sente la felicità addosso lo sa, e magari vorrebbe cercarla e trovarla da qualche parte.
Insomma, possiamo affermare con sicurezza che quando diciamo di essere felici, in qualche modo generiamo vita per noi e intorno a noi. La partoriamo.
E tutti sappiamo che un parto è il frutto di nove mesi circa di lavoro. Parimenti, possiamo immaginare che produrre felicità sia un percorso. Per essere precisi occorre creare la felicità, occorre generarla. Non cercarla, insomma. A meno che per “cercare” non si intenda cercare di farla nascere.

Felicità è uno stato. E diciamo “sono” felice. Quello stato si sente col corpo e si riconosce con la mente. All’unisono, mente e corpo sanno che cos’è la felicità.
“Come ti senti?”.
“Sono felice, tu?”
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Questo articolo è stato scritto per la Giornata Nazionale dell’Informazione Costruttiva 2023 #GNIC2023
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- Giornata nazionale dell’informazione costruttiva 2021: qual è la vostra cosa bella?