di Daniele Poto – Ben vengano le polemiche se servono a chiarire. L’ipersensibilità di Paola Egonu è stata messa a dura prova più che da quattro scriteriati commenti sui social dalla tensione per un mese di mondiale.
Un lungo tunnel di preparazione e poi dodici partite quasi senza soluzione di continuità: dieci match vinti, due persi (tutti e due con il Brasile) per approdare nella piccola finale con gli Stati Uniti a un bronzo comunque prezioso.
Per i suoi detrattori la colpa della Egonu, 275 punti all’attivo nel torneo iridato (non c’è bisogno di dirlo la più prolifica delle azzurre) è di aver sbagliato nel terzo set con il Brasile la palla vincente sul 25-24 e di non aver contribuito, più a largo raggio, alla conquista della medaglia d’oro.
A cosa ci si appiglia per contestare la giocatrice più forte, una delle stelle del mondiale? Al colore della pelle banalmente!
Ma l’Italia non è un paese razzista anche se ogni tanto covano rigurgiti di risentimento verso gli atleti adottati felicemente dalla nazione che s’impongono come protagonisti assoluti.
Una ragazza di 23 anni, sana, robusta, forte e potente in procinto di approdare a una squadra turca con un contratto annuale da 600.000 euro (formalmente però la pallavolo è uno sport di dilettanti) desta naturali invidie ed ecco il caso, quasi un gossip perché sviluppato a partire da una frase rivolta dalla Egonu al proprio procuratore.

Di qui il divampare della polemica che ha messo in dubbio la prosecuzione del cammino azzurro della titolare del sestetto. Non diremo tanto rumore per nulla ma un benefico chiarimento. Con mediazioni importanti: in ordine di importanza, del presidente della Repubblica Mattarella, dal Presidente del Consiglio uscente Draghi, del presidente del Coni Malagò.
Scommettiamo che tutto rientrerà con la velocità di un baleno e che la Egonu nel 2023 si presenterà puntualmente alle chiamate del citì azzurro, chiunque esso sia?
La sua parabola sembra già scritta con la possibile designazione come alfiere per i Giochi Olimpici del 2024, rinnovando una designazione significativa come quella dell’italo-caraibico Carlton Myers nei Giochi del 2000.
Del resto se gli atleti più sensibili si facessero turbare dalle intemerate sui social l’attività sportiva nazionale correrebbe il rischio di paralizzarsi. La condizione di personaggio pubblico sovraesposto ha provocato una polemica su cui si sono pubblicate pagine e pagine, soffiando sul fuoco.
Ma la solidarietà incontrata dalla Egonu ha già ridimensionato la portata dell’esternazione e avviato la narrazione verso il logico happy end.
Covava fuoco sotto la cenere ed è un bene che il malumore sia venuto a galla. Una cintura protettiva ha rincuorato la pallavolista che, lungo una carriera sicuramente lunga, imparerà ad assorbire le delusioni.
E quella più importante veniva dal campo, dalla mancata conquista del primo posto e non dai banali attacchi via Internet.
Ormai la lunga maggioranza degli italiani ha assimilato il concetto: non esistono razze ma solo esseri umani di diverso pigmento.
E se togliessimo all’Italia la possibilità di adottare ragazzi nati in altri nazioni e in altri continenti, una sorta di ius soli sportivo, il nostro patrimonio di competitività sarebbe ben poca e piccola cosa.
Lo sport, da Crippa alla Dosso (atletica), dalla Sylla (pallavolo) a Bilgha (basket) racconta tante storia di pacifica e auspicabile accoglienza. Indipendentemente se i soggetti citati siano nati in Italia o nel continente africano.