di Giulia Segna – La società globalizzata e interconnessa di oggi richiede sempre maggiori capacità relazionali in contesti pluriculturali. Internet, i viaggi Erasmus, i social media e il business internazionale annullano le distanze spazio-temporali, mettendo in contatto – fisico o virtuale – persone che vivono ai poli opposti della Terra. Non sempre, però, siamo preparati a gestire efficacemente l’incontro con l’altro, portatore di specifici valori, abitudini e interpretazioni del mondo. Per questo, la letteratura scientifica sta producendo sempre più studi sulla comunicazione interculturale: innumerevoli ricerche confermano l’importanza di avere determinate competenze psicologiche, emotive e pratiche per agire costruttivamente nelle situazioni multiculturali.
Tra i modelli teorici proposti in letteratura, quello del sociologo statunitense Milton Bennett, denominato Modello Dinamico della Sensibilità Interculturale (MDSI). Secondo lo studioso la competenza interculturale di un individuo dipende da come egli si pone rispetto alla diversità (culturale).
In particolare, quanto riesce a percepirla, come interagisce con essa e che tipo di rielaborazione riesce a farne, a posteriori.
Fare esperienze di viaggio, vivere con coinquilini stranieri o lavorare con colleghi di altre nazionalità contribuisce a relativizzare sé stessi ma non basta per diventare interculturalmente competenti.
Piuttosto, afferma Bennett, questa capacità si perfeziona a seconda di quanto è sofisticata l’esperienza di diversità culturale.
Insomma, bisogna guardare più al “come” che al “quanto”. Sulla base di questo assunto, l’accademico ha costruito il MDSI: un continuum di sei fasi possibili di esperienza della diversità, caratterizzate da particolari atteggiamenti e convinzioni. La collocazione in uno degli stadi è autonoma e si basa sull’autopercezione: Bennett, infatti, ritiene che la misurazione delle proprie abilità interculturali tramite altri strumenti sarebbe fin troppo arbitraria, limitata e fuorviante.

Le sei fasi del modello sono: negazione (della diversità); difesa (dalla diversità), minimizzazione (della diversità); accettazione (della diversità); adattamento (alla diversità); integrazione (della diversità).
Il movimento lungo la linea, tendenzialmente, va da sinistra verso destra, perché dopo aver fatto esperienza di contatto con altre culture è più probabile che il concetto di diversità culturale si faccia via via più sofisticato, non il contrario.
Nel dettaglio:
NEGAZIONE: la persona in questa fase non è in grado di elaborare categorie rilevanti per indicare la diversità, probabilmente perché non ne ha mai fatto esperienza, ha viaggiato poco o ha scarsa conoscenza di altri popoli. Tipico di questo stadio è collocare l’alterità in macro categorie indifferenziate come quella degli “immigrati” o degli “stranieri”, immaginati come tutti uguali tra loro (ma ovviamente diversi da sé stessi, quindi dal proprio gruppo). Ciò accade perché le altre culture non sono considerate davvero reali come la propria.
Il motto che rispecchia questo atteggiamento è “vivi e lascia vivere”. Secondo le testimonianze di alcuni studiosi, un approccio simile è stato rilevato (sorprendentemente!) anche tra chi lavora in ambienti internazionali, come quello della Cooperazione allo Sviluppo: gli operatori occidentali espatriati, sebbene residenti in un paese straniero, vivono in circostanze privilegiate e segregate, circondati da connazionali, senza sentire il bisogno di interagire ma neanche di denigrare i locali, manifestando un atteggiamento di isolamento e/o separazione;
DIFESA: la persona collocabile in questa fase del modello, è consapevole che la diversità culturale esista ma le attribuisce un valore negativo. L’altro è una minaccia e l’emozione prevalente in contesti pluriculturali è la paura. Ci si sente costantemente sotto attacco, in particolare si vive con il terrore che lo straniero possa inquinare o cancellare la propria identità. Per alleviare questo timore, si tende a denigrare gli altri gruppi, indiscriminatamente portatori di caratteristiche negative, ed enfatizzare eccessivamente gli aspetti culturali del proprio. Il confronto è vissuto con un senso di superiorità poiché poggia su conoscenze limitate (e stereotipate) dell’altro.
In alcuni ambienti internazionali, tuttavia, ciò può manifestarsi in un senso opposto, cioè nella “difesa al contrario”: i valori attribuiti a “noi” e “loro” sono invertiti. L’individuo, in questo caso, è pervaso da una certa esterofilia che lo porta a criticare la propria cultura ed esaltare romanticamente le altre. Secondo alcune ricerche di settore, questa idealizzazione – spesso confusa con progressismo o apertura mentale – è diffusa negli ambienti internazionali altamente istruiti;

MINIMIZZAZIONE: gli altri esistono e in qualche modo differiscono da noi, ma nel complesso, sono come noi. Chi tende a minimizzare la diversità culturale la percepisce come semplice folklore, non come un processo intimo e profondo. Ciò che differenzia le comunità del mondo sono i cibi, la routine quotidiana, la scelta dei vestiti o la musica tradizionale, cose che, in fondo, non producono alcun impatto sul modo di vivere il mondo. Insomma, tranne qualche peculiarità più superficiale, siamo tutti uguali. Il pericolo di questa visione è che se siamo tutti uguali, tutti sono uguali a me. Una posizione – forse inconscia – che pone sé stessi al centro dell’universo, inducendo a dare per scontato che i concetti di giusto e sbagliato, morale e immorale, accettabile e punibile siano gli stessi per tutti, cioè uguali ai propri.
Questo atteggiamento, stando ad alcune ricerche, si verificherebbe spesso negli ambienti del terzo settore a stretto contatto con stranieri, in cui regnerebbe una filosofia tipo “Ti aiuto affinché diventi come me. Se lo rifiuti o ti ribelli, allora non meriti il mio sostegno”. Milton Bennett immagina questa forma di universalismo in due modi: fisico (gli esseri umani sono considerati come portatori di medesime esigenze fisiologiche) e trascendentale (siamo tutti uguali davanti a Dio o al sistema economico o ai diritti umani, ecc). Praticamente, gli stessi fattori ci influenzano tutti allo stesso modo;
ACCETTAZIONE: le persone collocabili in questa fase apprezzano la diversità e la rispettano, percependola come una manifestazione naturale dell’esistenza umana. Le altre culture sono affascinanti e c’è il desiderio di scoprire di più. Questa mentalità, di norma, porta l’individuo ad osservare i membri del proprio gruppo e a raccogliere informazioni sugli altri, consentendogli una rielaborazione abbastanza sofisticata delle categorie culturali, compresa la propria. E’ una visione aperta, non giudicante e relativa del mondo che, tuttavia, non mette al riparo da un grosso rischio, quello di inciampare in una impasse relativistica: accogliere tutto in nome della diversità culturale, senza filtri e senza capire fino a che punto si è disposti ad accettare i valori degli altri. Un eccessivo relativismo, quindi, finisce per bloccare la persona anziché lasciarla muovere efficacemente nei contesti pluriculturali. Rischia di annacquare i propri punti di riferimento, di creare confusione e disorientamento;
ADATTAMENTO: chi si colloca in questa fase è in grado di relazionarsi efficacemente con le differenze, riuscendo a provare empatia, ovvero ad assumere la visione dell’altro, pur eventualmente non essendo in accordo con la sua opinione o non capendo il suo comportamento. La persona in questo step del continuum fa uno sforzo costante di decostruzione e ricostruzione della realtà circostante, capace di accogliere nuovi punti di vista sul mondo: questo è, secondo Bennett, saper fare spazio ad una “terza cultura virtuale”, un luogo mentale in cui l’individuo elabora una sintesi tra la sua prospettiva e quella degli altri, senza la paura di essere sopraffatto dalla diversità. L’accettazione temporanea di un valore o di un atteggiamento, infatti, non compromette la propria identità, ma arricchisce la gamma di alternative disponibili in termini di pensiero, comportamento, comunicazione o emozioni.
L’empatia, nominata prima, è la capacità chiave di questa fase: riuscire ad assumere la visione dell’altro vuol dire guardare le cose dalla sua angolazione, uscendo (temporaneamente) dai propri confini corporei, emotivi e valoriali. E’ un esercizio complesso e faticoso che richiede una costante pratica mentale. Spesso è confuso con la simpatia, che è invece l’atteggiamento tipico di chi capisce l’altro perché ha già vissuto una situazione simile oppure prova a mettersi nei suoi panni immaginando come si sentirebbe se fosse al posto suo. La simpatia pone al centro sé stessi, l’empatia pone al centro l’altro;

INTEGRAZIONE: E’ la fase che vivono le persone in grado di sperimentare costantemente un “sé allargato”, senza precisi confini valoriali. O almeno, non statici né definiti. Questo significa che il proprio modello culturale è in continua evoluzione, in costante espansione, pronto ad eventuali modifiche quando si incontra l’altro. Chi è in questa fase fa esercizio quotidiano di accoglienza di nuove componenti culturali, non annullando sé stesso ma arricchendo il proprio paradigma di riferimento. L’atteggiamento di chi si colloca in questa fase è tipicamente positivo e costruttivo, capace di elaborare sistemi di valutazione sempre differenti a seconda del contesto.
Le prime tre fasi – negazione, difesa, minimizzazione – rispecchiano un atteggiamento etnocentrico, tipico di chi è convinto che la propria cultura sia l’unica reale, la più giusta, un riferimento universalmente valido. Insomma, la propria visione è “normale” e chi se ne discosta è “strano”.
Le ultime tre fasi – accettazione, adattamento, integrazione – invece, sono il riflesso di un atteggiamento etnorelativo, che concepisce la propria cultura come una delle tante esistenti, una delle tante possibili.