di Eleonora Guaragna – Sono ormai moltissime le aziende che manifestano forme di responsabilità nei confronti del pianeta e dei suoi equilibri. Non sempre, tuttavia, a proclami e promesse corrisponde un effettivo, dimostrabile impegno di risorse ed energie per contrastare le grandi emergenze del nostro tempo.
Esiste, ed è piuttosto diffuso, un neologismo inglese coniato per indicare esattamente questi insidiosi casi di ambientalismo di facciata. Con il termine greenwashing, unione delle parole “green” (verde) e “washing” (“lavare”, “ripulire”), facciamo riferimento a tutte quelle strategie di comunicazione e marketing adottate dalle aziende per cavalcare l’onda green e confezionare un’immagine del proprio brand (o di singoli prodotti e servizi messi sul mercato) amica dell’ambiente, ma ingannevole.
Pennellate di verde a coprire qualcosa che, nei fatti, così verde non è.
Se ciò che l’azienda dichiara non è supportato da dati, prove e certificazioni, se si limita a decantare solo una piccola parte delle attività sorvolando su tutto il (problematico) resto, ecco che scivoliamo nel greenwashing. O nel socialwashing, quando la “patina di sostenibilità” si estende anche all’ambito sociale, ad esempio pubblicizzando un impegno virtuoso dell’azienda nei confronti dei lavoratori o su temi di equità, inclusione e diritti umani.
Sempre più spesso i consumatori oggi preferiscono acquistare prodotti sostenibili,
dando fiducia ad aziende che integrano nella propria mission valori positivi e benefici nei confronti del pianeta e delle persone. Ma non tutti possiedono gli strumenti e le conoscenze necessari per capire quali realtà siano genuinamente impegnate su questi temi e quali, invece, si limitano a strategie pubblicitarie poco trasparenti e promesse non mantenute. Non aiuta il fatto che il mondo della sostenibilità sia ancora oggi, nonostante il crescente impegno delle istituzioni, scarsamente regolamentato.
Image by Jarrett Tilford | Pixabay
Negli ultimi mesi si è parlato spesso di greenwashing nel panorama della moda, e nello specifico del fast fashion, ma si tratta di un’insidia che può toccare ogni settore economico. Se ne sta parlando anche molto in questi giorni durante la COP27 in corso a Sharm el Sheikh.
Quindi, come difendersi?
Alcune accortezze e buone abitudini, se allenate con costanza e intenzionalità, possono venire in aiuto:
- Informarsi accuratamente su storia e reputazione di aziende e prodotti prima di effettuare un acquisto, non limitandosi al singolo bene ma cercando informazioni complessive su tutta la filiera produttiva: materie prime e fornitori, trattamento e diritti dei lavoratori, packaging e imballaggi, fonti energetiche utilizzate, smaltimento dei rifiuti e dell’invenduto… In questo, Google è di aiuto: associazioni di consumatori e relativi siti web e forum, giornali e testate segnalano frequentemente nuovi casi di controversie e operatori sanzionati dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (e non solo).
- Nella fase di screening di un prodotto o di un marchio, cercare etichette e certificazioni esterne ed indipendenti, rilasciate da enti, agenzie governative ed altri organismi riconosciuti ed autorevoli. È molto utile documentarsi sulle singole certificazioni, familiarizzando con i criteri ed i parametri sulla cui base vengono assegnate per conoscere meglio l’effettivo impatto e la qualità di ogni prodotto.
- Consultare documenti, piani aziendali e rendiconti sugli impegni di sostenibilità e gli obiettivi raggiunti. Nell’informarsi su ciò che un’azienda fa realmente ogni giorno per il pianeta e i suoi abitanti, è importante non limitarsi agli slogan e alle immagini evocative ma ricercare numeri, indicatori e dati tangibili, validati da soggetti terzi. Oggi è diventato più semplice approfondire questi aspetti: documenti, report e bilanci di sostenibilità sono spesso reperibili e consultabili nei siti web di società, aziende e produttori.
- Aggiornarsi ed informarsi con costanza. Essere consumatori consapevoli e conoscere il mondo della sostenibilità, i suoi temi caldi, gli impegni delle istituzioni, gli sviluppi della ricerca scientifica e della normativa di settore è impegnativo, ma indispensabile per capire quali aziende sono davvero “mature” dal punto di vista delle strategie di responsabilità sociale e quali sono rimaste ancora parecchio indietro. Per aiutare i lettori di tenersi aggiornati in modo smart, semplice ed accessibile, molti canali di informazione, giornali, blog, portali e centri di ricerca oggi pubblicano rubriche periodiche, video pillole e brevi podcast alla portata anche dei “non addetti ai lavori”.
Supportare le aziende realmente virtuose e sostenibili. Impegnarsi ad offrire prodotti e servizi realmente rispettosi del pianeta, ed a comunicare in modo trasparente e misurabile questo impegno, ha un costo che può riflettersi sui prezzi finali degli stessi beni. Abituarsi a consumare meno e meglio è una buona pratica che aiuta e sostiene le aziende meritevoli (specialmente quelle di piccole dimensioni, gravate da costi maggiori), incoraggiando il mercato ad orientarsi verso una sostenibilità dimostrabile. E, di conseguenza, verso un cambiamento reale.
Ecco alcuni siti di riferimento per informarsi:
-
Altroconsumo, associazione di consumatori
-
Ecolabel e Fairtrade
-
Ecobiocontrol, standard e database per prodotti di eco-detergenza e cosmesi
-
Good on You, app per i brand fashion