di Marianna Mandato – “È un opera di fantasia”, si legge aprendo il libro. Si tratta di “Veramente falso, the very best for the last book” (Porto Seguro Editore 2022), di Daniele Poto. Eppure, si ha la sensazione che lì dentro, in quelle pagine, i vari protagonisti si muovano e diano vita a personaggi noti a tutti. Personaggi che sembrano recitare in uno spazio cinematografico fatto di Italia, come attori sul set di vari corti.
E sì, pare proprio di vederli quei personaggi. Conosciuti, familiari, con le loro storie, le loro situazioni a muoversi in un “ciak si gira” di vita reale. Volti comuni che comuni non sono nell’unicità di ogni persona. Per scoprire alla fine che quegli attori siamo noi. Con le nostre vite, con le nostre riflessioni, con le nostre speranze, con i nostri sentimenti, le nostre quotidianità e la splendida amara Italia a far loro da cornice.

Racconto dopo racconto, Daniele Poto dà vita a un’Italia con le sue criticità, con le sue contraddizioni, con la sua decadenza, la sua opacità e le sue capacità sopite, spesso mal valorizzate. Un’Italia fatta di un puzzle di storie che ne restituiscono un’immagine di Paesone e Nazione decadente ma con spiccate e inequivocabili caratteristiche al contempo.
Non esiste un tempo unico a caratterizzare il filo dell’abile regista scrittore, ma se ne percepiscono i contorni. Si va dal millennio precedente, come dice Poto, alla pandemia coi suoi reclusi, sospesi e costretti a provare persino sentimenti on line. L’amore ai tempi del virtuale. Fantasie anche erotiche che si sciolgono in uno spazio fatto di sola mente collegata a un computer. E gli smarthphone
che nella realtà deviata del virtuale erano diventati indispensabili per dare prova di esistenza in vita, con o senza mascherina,
con le parole di Poto. Poi quella madre disperata perché sua figlia non vive, funziona. L’homo pensionandus, il tunisino che si sente più italiano che tunisino o il pugile romano lost in the United States. E se solo il frigorifero potesse parlare, in questo particolare momento storico…
Il libro scorre sotto i nostri occhi di lettori, in modo molto piacevole e delicato. Lo caratterizza un linguaggio amabile, ironico, diretto, ricercato e mai scontato. Dopo averlo letto tutto, si vorrebbe spuntasse fuori un nuovo racconto, proprio come quando si aspetta si materializzi un regalo sotto l’albero di Natale.
Chi leggerà questo libro non amerà il suo sottotitolo “the very best for the last book”. Ma ci sentiamo di tranquillizzare il pubblico di lettori dicendo che Daniele Poto, non smetterà certo di scrivere. Soltanto, la sua scrittura prenderà vita in altri modi e forme.
Noi siamo pronti ad accoglierla.
Abbiamo voluto suggellare la lettura di questo bel libro con una breve intervista all’autore, Daniele Poto. Sicuramente un regalo reale per tutti i lettori.
Cosa ti è più caro di questo libro?
Il fatto che si chiuda un ciclo. Una sorta di allegro testamento letterario. L’ultimo libro di una serie di 23 sugli argomenti più disparati.
Ne percepisco i sentimenti. Lo stato d’animo mentre scrivevi. Sono quelli, è quello che provi scrivendo dell’Italia, delle sue eterne problematiche e criticità, delle persone e di come vengono trattate, maltrattate o non trattate, che ti porta a decidere di non voler scrivere altro?
Ho deciso di non scrivere altro perché si scrive troppo e si legge poco. E io non voglio contribuire al mercato dei libri non letti o poco letti. Basti pensare che il 93% dei libri che escono non raggiungono le 100 copie di diffusione. Bellissimo scrivere un libro, discreto limarlo, trovare un editore, correggere le bozze, orrendo distribuirlo e pubblicizzarlo. Mi amareggia la scarsa rispondenza alle presentazioni, anche da parte di amici ritenuti affidabili e fidati.
Sai già che non ce la farai a non rivedere chi hai tanto amato e ami ancora, anche se vorresti fuggire da lei chilometri e chilometri? Parlo dell’Italia, ovviamente…
La mia età mi spinge (mi costringe) a rimanere in Italia. La mia condizione mi spinge, mi costringe a rimanere a Roma. Assurdo ma vero. Non ho fatto la scelta di Portogallo e Tunisia come tanti conoscenti. Ma gioco in difesa in una jungla di città con tanti anziani e poca pietà.
C’è qualche aneddoto legato alla realizzazione di questo libro che ti andrebbe di raccontare?
Mi riempie di orgoglio pensare che il libro ha avuto dieci proposte contrattuali e ho lasciato il vecchio per il nuovo scegliendo un nuovo editore. Buffo che chi lo legge, conoscendo il titolo, mi chieda se le vicende narrate siano personali. Potrei rispondere: “Si, è un’autobiografia ma non la mia”.
Ti sei occupato negli anni di tantissime questioni spesso poco “comode”. Cosa ti hanno lasciato addosso?
Devo dire che il giornalista spesso si occupa di cose che non conosce. Per curiosità ci si avvicina, approfondisce, ne scrive e poi si allontana. Ha il dono di parlare di cose in cui si immerge e che poi abbandona. Questo è il suo pregio ma anche il suo limite. E’ un difetto costituzionale che appartiene alla sua professione.
Qual è la bellezza, l’incanto nelle cose, nelle persone, secondo te?
La voglia di comunicare, la partecipazione. Ma in giro si vedono tante facce spente, tanti cervelli sopiti. E certo la povertà spinge in un baratro di stagnazione anche intellettuale. Sono nello stato e nella condizione di chi ha rinunciato a cambiare il mondo ma pretende che il mondo non cambi me.
Se c’è infine qualcosa, qualche argomento “a piacere tuo” – ti avrebbero detto a scuola – di cui vorresti accennare qualcosa, avrei molto piacere di poterlo condividere e far conoscere con la scrittura, tramite B-Hop.
Un mio pallino è la lotta contro le dipendenze di ogni genere, la difesa della libertà di pensiero, di religione, di azione. Ti devo dire che, essendo pessimista, vedo più spesso il bicchiere mezzo vuoto. E, dunque, per conseguenza, più che buonista sono cattivista. Il nostro B-Hop mi invita continuamente a esserlo di meno.