In un vecchio spot di un noto marchio alimentare un bambino, bevendo un bicchiere di latte, esclamava “è quello della Lola!”. Il messaggio era chiaro, trasmettere a noi consumatori l’idea che il prodotto che ci veniva venduto fosse naturale, controllato, sano, fino al punto da poter individuare dal sapore una simpatica mucca che mangia spensierata in un prato. Nelle etichette applicate sui prodotti in vendita per quanto riguarda provenienza, tracciabilità di produzione e lavorazione, sugli ingredienti contenuti, si sono fatti molti passi in avanti positivi, ma anche alcuni negativi o fuorvianti, usati come specchietti per abbindolare noi consumatori allodole. Penso a messaggi come “Gluten Free” su prodotti cosmetici, o la scritta “Bio” su prodotti in cui la componente biologica è infinitesimale, o, peggio, ai tanti “aromi naturali” che in larga parte sono sostanze chimiche di sintesi, studiate da chimici al cui confronto Jean-Baptiste Grenouille, protagonista de “Il Profumo” di Patrick Süskind sembra un dilettante.
L’ultima delle tante “rivoluzioni” nelle etichette si chiama Social Footprint – Product Social Identity (SFP). Questa etichetta si prefigge di riportare informazioni dettagliate sull’impatto sociale di un’azienda e sul suo comportamento etico. L’obiettivo è comunicare al consumatore l’impegno in termini di sostenibilità, ovvero qual è l’organizzazione dell’impresa, se opera in Italia e/o all’estero, se rispetta le pari opportunità indicando la percentuale di uomini e donne in azienda, il rapporto tra addetti ed impiegati, dove operano i suoi maggiori fornitori. A ciascun impresa è poi assegnato un voto finale: una ‘A’, se l’etichetta ha poche informazioni, tre ‘A’ se è completa.
Tutto bello, meritevole, condivisibile. Ma su di un aspetto del prodotto che stiamo acquistando non c’è, e forse mai ci sarà, nessun riferimento in etichetta, ovvero sulla formazione del prezzo che stiamo pagando per poterlo consumare.
Da anni sentiamo parlare di “filiera corta”, di “chilometri zero”, di GAS. Il circuito dell’equo e solidale è da sempre impegnato a far si che ci siano prodotti il cui prezzo di acquisto sia congruo soprattutto in aree del terzo mondo. Sappiamo anche però che tutto questo è una nicchia, una parte percentualmente molto piccola del mercato, che per quanto possa crescere la coscienza critica nell’acquisto non potrà soddisfare e sostituire quello che attualmente compriamo nella GDO, la grande distribuzione organizzata.
Quale sarebbe l’effetto di poter leggere il cosiddetto “prezzo sorgente” ovvero il primo prezzo al quale si vende una merce, quello praticato dal produttore prima di ogni altro ricarico della catena commerciale? Quali considerazioni potremmo trarre se il supermercato dove abitualmente facciamo la spesa dovesse esporre il prezzo di origine, che so, delle carote che stiamo acquistando a 1.80 € al chilo e fosse di 8 centesimi? A fine aprile, ad esempio, sul mercato ortofrutticolo di Latina (uno dei più grandi di Italia) le fragole I° qualità erano vendute ad 1 € al Kg (fonte ISMEA). Probabilmente capiremo che è assurdo bere a Bolzano acqua minerale del Pollino e in Sicilia acqua dei ghiacciai alpini.
I costi di tutta la filiera si sommano e compongono il prezzo finale del prodotto, dall’etichetta potremmo comprendere l’entità dei costi di trasporto, la quantità di ricarico e di profitto dei singoli passaggi. Questo probabilmente porterebbe ad una maggiore consapevolezza di noi consumatori su larga scala e (forse) garantirebbe una più equa distribuzione della ricchezza prodotta da un bene.
Ma le difficoltà di applicazione del prezzo sorgente sui prodotti non risiedono solo nella ovvia renitenza che avrebbero sia la grande distribuzione sia le varie multinazionali ad esporlo, perché sono passati anni senza che si riuscisse a definire quale sia davvero il prezzo sorgente. Se questo prezzo debba essere invariabile ed applicato da tutti al prodotto, se vada applicato ad una quantità rispetto ad un’altra. Insomma, quanto dovrebbe svincolarsi dalle regole del “mercato” per avere un reale valore per i produttori ed un’incidenza nelle abitudini dei consumi.
Che si arrivi o meno ad avere un’etichetta che riporti anche la formazione del prezzo, già oggi, impegnandoci in un consumo consapevole possiamo cambiare le cose, molto più di quanto crediamo. Questo non significa rinunciare ai consumi ma semplicemente migliorarli a vantaggio nostro e degli altri.