La vita è quella cosa che accade quando non sei connesso a Facebook. Quante volte abbiamo pensato questa cosa? Molte, sicuramente. Ma mai abbastanza, almeno non così profondamente da indurci a cancellare definitivamente il nostro profilo dal social-coso perché, diciamocelo, il nostro ego non è pronto e forse mai lo sarà.
Parlo di ego, perché? Il motivo è molto semplice: Facebook e la Rete in generale declinata nelle molteplici piattaforme sociali dov’è possibile postare foto, condividere pensieri e mostrarsi è diventata la piazza virtuale dove esporre il nostro egocentrismo, l’agorà dove gridare senza avere paura di esporci, il crocevia del pettegolezzo, il bar più frequentato da avventori che consumano senza ordinare, che passano senza pagare, che si incontrano senza conoscersi.
Più o meno consapevolmente la rete ci ha catturato e ci cattura ogni giorno dentro il vortice delle nostre stesse emozioni, risucchiandoci in una spirale fatta di curiosità, narcisismo, cinismo, eclettismo. La socialità ingannevole che si è creata lì dentro, oramai si sa, è tristemente filtrata dallo schermo, che funziona come uno scudo protettivo che ci ripara dagli altri ma soprattutto da noi stessi.
Recentemente, per poter scrivere questo articolo con maggiore cognizione di causa, ho deciso di sottoporre i miei contatti su Facebook – del tutto inconsapevoli della cosa – ad una sorta di quiz, che consisteva sostanzialmente nell’analizzare varie ed eventuali reazioni davanti alla pubblicazione di una notizia straniante: al posto dei soliti stati d’animo, delle canzoni, delle fotografie, dei pensieri, delle citazioni etc. ho deciso di cambiare lo status da ”single” a ‘’fidanzata ufficialmente’’, creando quindi una notizia ad usum del mio studio sociologico.
Beh, la cosa da sottolineare immediatamente è che tra i miei contatti quasi l’80% è mio amico o amica anche nella vita reale ed almeno il 60% di questi mi frequenta con regolarità. Fin qui tutto normale, direte voi. Certo, se non fosse per un piccolo particolare, ovvero che praticamente il 96% dei partecipanti (di quelli cioè che hanno commentato la notizia pubblicamente o tramite messaggi privati o telefonate) e’ composto da quelle persone che, in teoria, vivono la realtà insieme a me fuori dagli schermi e che, quindi, dovrebbero conoscermi bene ed avere la misura della realtà. Da qui si evince che Facebook riesce (a stupire?) laddove la fantasia non arriverebbe mai, cioè che è capace di far passare per vera una cosa senza che nessuno, nel pratico, si ponga il problema di filtrare quello che legge confrontandolo coi dati di realtà e verificarne quindi la veridicità. Un po’ quello che, ancora più tristemente, succede nel giornalismo odierno: molte notizie, nessuna cura nel verificare l’attendibilità delle fonti, ma l’immediatezza del commento è certamente assicurata dalla voracità di esserci, sempre e comunque.
La Rete crea l’illusione di realtà, riempiendo le nostre vite di tante informazioni non verificate, di nomi, facce, parole. Pubblichiamo ma non comunichiamo, scriviamo ma non leggiamo, non sempre con raziocinio almeno. Le parole vengono alterate dalla percezione sensoriale, dall’esaltazione egocentrica del paradosso. L’essere virtuale prende il posto dell’identità, e le maschere moltiplicano i mondi – pensiamo ai molti profili in cui non viene usato il vero nome e la foto è sostituita da un avatar più o meno improbabile -, le identità si fanno certamente liquide. La socialità multimediale è improntata all’esaltazione parossistica di una solitudine di fondo, in un’epoca in cui è diventato più facile taggarsi che esporsi, più facile mandarsi un messaggio di 140 caratteri invece che una sana chiacchierata davanti ad un caffè. La curiosità morbosa per le vite degli altri ha cancellato la voglia di conoscersi davvero, l’immaginazione ha prevalso quindi sulla realtà.
Tornando all’esperimento, in sostanza ha solo messo in luce quanto sia facile credere a quello che si legge. A quello che ci viene detto. Manca il passaggio successivo, cioè la verifica, ovvero il contatto con la realtà.
Facebook da fenomeno culturale è diventato modo di pensare e di vivere: mangiamo una pizza e subito postiamo la foto; ci troviamo in aeroporto…non sia mai che dimentichiamo di specificare il numero del volo alla platea degli amici; la foto del gatto, le vacanze al mare, la ricetta dei muffin, postare quantità ha tolto lo spessore ontologico alla qualità.
Ci siamo caduti dentro tutti, inutile negarlo. Una società di zombie, che barcollano nel buio con la lucina dello schermo sempre accesa: in bagno, a letto, al cinema. Iper-connessi quasi h24, abbiamo imparato a ragionare in bite e non in emozioni, contiamo i battiti del cuore con il numero delle visualizzazioni, chiamiamo amici persone mai viste, ci dimentichiamo di salutare il vicino di casa, di sorridere ad un passante. La vecchietta che attraversa la strada magari nemmeno la vediamo, perché nel mentre abbiamo fatto una fotografia ad una nuvola e dobbiamo per forza renderne partecipe anche l’ultimo dei cybernauti. Siamo diventati Narciso e ci piace specchiarci nel riflesso che diamo di noi al mondo. Un riflesso talvolta pericoloso, alterato.
Forse c’è una ricetta per disintossicarsi dai social network. Sarebbe quella di tornare a vivere, là fuori. Si, senza bip, senza lucine che si accendono, senza luci della ribalta che generano ombre platoniche, illusioni. Uscire dalla caverna per scoprire se stessi, per vedere com’era il mondo prima. La scoperta sarà entusiasmante: lo troveremo pieno di amici, pieno di nuvole, gatti, fiori, caffè da bere e esperienze da fare. Ma sarà tutto vero, perfino un fidanzamento.