di Daniele Poto – Il Mondiale di calcio in Qatar si è concluso con quella che salomonicamente è stata definita “la finale più bella di sempre”. Personalmente ritengo che sia stata confermata una tendenza: il calcio non è uno sport ma un gioco (vedi FIGC, Federazione Italiana Gioco Calcio, l’istituzione che governa il football nostrano).
Quando un match equilibrato finisce ai rigori a decretare il verdetto è un’autentica roulette russa in cui il merito non incide se non tangenzialmente (l’intuito dei portieri). Facile ex post per la critica ora metabolizzare la maggiore competencia dell’Argentina, magari retoricamente nel segno di Diego, ricorrendo a isteriche presenze e presagi.
Ma se avesse vinto la Francia gli stessi aruspici cosa avrebbero scritto?
Comunque dal mero punto di vista tecnico la manifestazione è stata un successo.
La Francia prima nel 2018 si è riconfermata ai vertici con il secondo posto; la Croazia ha scalato dal secondo al terzo rango; il Marocco è stata la lieta emersione di un continente che ha avuto tutte squadre africane in grado di vincere almeno una partita, quella persa, strada facendo, proprio dalla due finaliste Francia e Argentina.
E’ stato il mondiale disputato in un mese atipico (dicembre), in un posto più che atipico (il Qatar) con il tema dell’assegnazione forse corruttiva destinato a tenere banco ancora per molto tempo e chissà con quali rivelazioni. Ma la fame di denaro, il business legato a un ancor maggior numero di partite (vedi tentativo frustrato di Superlega tra i club europei) è un falso irrefrenabile sviluppo. Nel prossimo mondiale 2026, sparpagliato in vari Paesi, le nazioni partecipanti saranno addirittura 48.
E questa volta l’Italia anche grazie a questo allargamento dovrebbe ritrovare il suo posto al sole, perso per due volte consecutive
(ma tre edizioni fa, con la perentoria eliminazione d’avvio, la brutta figura è stata comunque assicurata).
Tornando alla finale c’è da osservare che è stato messo in discussione il carattere collettivo del calcio.
Argentina-Francia è sembrata soprattutto una sfida individuale a base di colpi di genio di Messi e Mbappè.
Il secondo ha segnato di più ma il primo ha vinto. Non si può non sottolineare quanto poco fair play ci sia stato frammisto a scampoli di bel gioco. Il portiere argentino Martinez nei secondi che precedono i penalty ha provocato gli avversari dal dischetto pronunciando frasi oltraggiose e in un’occasione scalciando il pallone lontano per innervosire il battitore. Lo stesso estremo è quello che è stato pescato dai fotografi in un irriguardoso gesto osceno.
E che dire dei giocatori della Francia che si sono sfilati la medaglia d’argento dal collo come a disconoscere la validità dell’attribuzione! Sport anche quello? Ma il calciatori non sono peggiori dei loro rappresentanti, i massimi dirigenti.
Gianni Infantino, il gran patron della FIFA, quello che aveva esordito alla vigilia con la perentoria affermazione: “Oggi sono qatarino, gay e migrante” (che voleva dire?) in corso d’opera ha strenuamente difeso la propria creatura organizzativa. “Gli operai sono morti ma ora i tifosi vogliono godersi il calcio”. Frase ultra-cinica che spazzava proditoriamente in un colpo solo lo stigma anti Qatar per la continua violazione dei diritti umani, riassunta da 6.500 perdite nell’arco di dieci anni.
Per confermare quanto siano manovrabili le cifre il governo qatarino aveva ribattuto che i morti reali nei cantieri sono stati in realtà solo 37.
Di fronte a questo ridimensionamento davvero qualcuno può pensare che, esaurito il mondiale di calcio, in quel Paese si stia producendo un nuovo Rinascimento?