di Walter Falgio – «Giggirriva!». Era il grido che annunciava la falcata di Rombo di tuono, esclamato da tanti sardi e non solo, sugli spalti di un vecchio stadio cagliaritano. L’Amsicora, intitolato a un altro condottiero leggendario caro agli isolani, che nell’antichità combatté contro i romani.
È davvero complicato scrivere del numero 11 per eccellenza senza incorrere nell’apologia, di colui che in una fatidica primavera di cinquantatré anni fa mutò il corso della storia del calcio italiano, agguantando uno scudetto che per la prima volta poteva essere cucito nelle maglie di una “provinciale” perfino oltre Tirreno.
A Gigi Riva, imbattuto miglior marcatore della nazionale italiana di calcio con 35 reti in 42 partite, è stata dedicata un’infinità di eventi sportivi, di produzioni culturali, artistiche, letterarie. Gli scritti giornalistici che lo celebrano non si contano.
In occasione dell’ultimo, 78esimo compleanno, è stato presentato il film “Nel nostro cielo un rombo di tuono” di Riccardo Milani, prodotto da Wildside, Vision Distribution, in collaborazione con Sky e con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission; è stato pubblicato da Rizzoli il libro Mi chiamavano rombo di tuono, dove il fuoriclasse si racconta con lo scrittore Gigi Garanzini e così decifra uno dei caratteri che maggiormente ha alimentato l’ammirazione del personaggio:
«La mia prima Sardegna, quella che mi è rimasta nel cuore e mi ha fatto diventare in breve tempo più sardo dei sardi, è stata quella delle barche dei pescatori, non degli yacht. Dei pascoli e delle grotte, non delle ville miliardarie».
L’interesse che oggi suscita l’importante traguardo del Cagliari del Settanta e del suo irresistibile attaccante travalica abbondantemente i confini delle cronache sportive.
Si tratta a tutti gli effetti di un avvenimento che interseca la storia popolare della Sardegna e che ha stimolato le riflessioni degli studiosi: di una grande impresa, soprattutto agli occhi dei tifosi più accaniti che per anni avevano visto «traccheggiare la squadra tra la serie B e la serie C», parla il contemporaneista Luciano Marrocu. Di un fenomeno urbano che per la prima volta «in modo generalizzato e trasversale» coinvolse tutta l’isola, scrive lo storico dell’economia Sandro Ruju.

L’epopea del calciatore di Leggiuno è stata costruita nel tempo, intrecciando il racconto delle doti tecniche con il profilo umano, con la sua proverbiale introversione, l’antiretorica, la malinconia.
Nel 1975 Gianni Brera con stile inconfondibile decretava: «Nessuno riesce a battere al volo come lui, nessuno a rovesciarsi come lui em bycicleta, a staffilare da terra su calcio franco, a scattare, entrare, svellere».
Due anni dopo, in occasione del ritiro dai campi da gioco a causa di un grave infortunio, Giovanni Arpino scriveva che «va in pantofole l’ultimo autentico “eroe” della pedata patria: un uomo che galoppava verso l’area avversaria puntando gomiti d’acciaio nelle costole altrui (è il mestiere) trascinandosi sulle spalle almeno due marcatori, aggredendo l’aria.
I suoi gol – basterebbe rivederli in sequenza rallentata – furono un prodigio di coordinazione e coraggio, di furia muscolare e di ispirazione, parola sacra che usiamo senza alcun falso pudore». Nel 2019 il giornalista Federico Buffa ha raccontato la vita del campione in una serie in due puntate andata in onda su Sky e più recentemente ha scritto uno spettacolo teatrale evocando un incontro realmente avvenuto tra Riva e Fabrizio De André: «Amici fragili».

Un’analisi attenta e puntuale sulla ribalta del Cagliari nell’anno dello scudetto, sulle implicazioni dell’evento calcistico nell’Italia dell’epoca e nel tessuto socio-economico della Sardegna e sul “fenomeno Riva” si deve ora allo storico della Statale di Milano, Massimo Baioni.
Nel saggio recentemente pubblicato dalla rivista “Passato e presente” lo studioso mette in luce i tratti di una narrazione paradigmatica che a Riva e solo a Riva, a differenza di tanti altri bomber dell’epoca, è stata esclusivamente riservata sormontando i confini di una stretta dimensione agonistica.
«Il calciatore potente e irruento – scrive Baioni –, coraggioso e sfortunato, l’antidivo, il rapporto osmotico con un’isola e con la sua gente: tutto ciò ha reso Riva il soggetto anomalo di una rappresentazione sui generis letteraria, che ne ha fissato i tratti quasi di moderno eroe omerico».
Sottolinea anche quanto la figura dell’atleta, entrata a pieno titolo nella memoria pubblica nazionale, sia stata interpretata come
«emblema della riscossa di un popolo dimenticato».
Citando le cronache dell’epoca del giornale comunista “l’Unità”, riemerge quanto Riva abbia demolito (e tuttora demolisca) i cliché dei culti sportivi a favore di una «“visione più umana dell’impresa agonistica”: i calciatori vivono integrati nella realtà popolare della città, frequentano le trattorie, i pescatori, parlano con la gente, rifuggono da atteggiamenti divistici».
Questa sua distanza abissale dalle pratiche dei vip con i tacchetti e soprattutto il niet alle avances della blasonata squadra bianconera hanno plasmato il culto dell’ultimo «hombre vertical», secondo la celebre definizione di Gianni Mura. «Tarderà molto a nascere, sempreché nasca, uno che gli somigli», profetizzava Arpino.