(reportage di Patrizia Caiffa) – Khajuraho è famosa in tutto il mondo per le sculture erotiche incise su antichi templi indù, costruiti secondo i dettami dell’architettura nagara tra il VII e il XIV secolo, sotto la dinastia dei Chandelas.
Se state cercando solo informazioni logistiche, storiche o artistiche per organizzare il vostro viaggio andate altrove: il web è pieno di blog di viaggiatori e poi c’è sempre Wikipedia.
Se invece siete interessati ad uno sguardo tra la cronaca e il racconto che cerca la bellezza, le emozioni, le sfumature, inquadrati in un contesto sociale, restate qui. Una sorta di continuazione delle “Indian emoticons“, un mio libro scritto anni fa.
Khajuraho è una piccola cittadina di 20.000 abitanti, nello Stato del Madhya Padresh, in India. Un posto difficile da raggiungere rispetto ai consueti circuiti turistici.
I tour organizzati vi arrivano con bus e pulmini, i viaggiatori fai-da-te hanno la possibilità di pochi voli da Delhi, Varanasi e Mumbai. Il piccolo aeroporto è nuovissimo e non si spiega lo scarso traffico aereo in una località così nota.
In alternativa, a seconda della località di provenienza, si possono improvvisare voli low cost nelle città più vicine e lunghe percorrenze in treno o taxi, che permettono di entrare lentamente nei ritmi dell’India rurale.
Noi siamo atterrati nella città di Lucknow nell’Uttar Pradesh e poi per sei ore e mezzo abbiamo visto scorrere dal finestrino anonime cittadine polverose con mercatini di frutta e verdure, donne in sari dallo sguardo alto e fiero, anziani acciambellati in strada e uomini sempre indaffarati, circondati dai soliti tuk tuk chiassosi e dalle onnipresenti mucche, spesso affiancate da bufali e capre.
In questo tratto di strada si alternano lunghe distese di campi coltivati a fabbriche di cemento e mattoni. L’elemento insolito è rappresentato dalle torte di sterco di vacca stese a seccare al sole, usate come combustibile naturale per accendere il fuoco e riscaldarsi, cucinare, asciugare i vasi in creta appena modellati.

Tre giorni a Khajuraho sono sufficienti per adattarsi ai ritmi placidi di questa cittadina con case basse, tanti alberghetti un po’ dimessi (indian style) e pochi hotel di lusso.
Sorprende vedere in giro in questo periodo – winter season – pochi turisti, negozi e ristoranti vuoti, commercianti che cercano di attaccare bottone perfino in perfetto italiano, lamentando il forte calo del turismo occidentale in questi ultimi anni.
I motivi possono essere diversi: Khajuraho è una mèta difficile da raggiungere e molti sono spaventati dalle notizie negative sull’India degli ultimi mesi, come la repressione delle proteste contro la legge sulla cittadinanza (Citizen amendment act), che penalizzerebbe musulmani, minoranze e apolidi. E tanti hanno rinunciato a viaggiare per paura del coronavirus.
Di fatto negli ultimi anni, complice un esplosivo boom economico che però è in rallentamento, mentre crescono disoccupazione e inflazione, gli indiani hanno cominciato a viaggiare per conoscere il proprio Paese. Ma è un turismo apparentemente mordi e fuggi, tanto per postare foto sui social.

Questa situazione inedita ci ha consentito di godere della bellezza dei templi di Khajuraho senza le solite masse fameliche che aggrediscono le località più belle del mondo, come il Taj Mahal di Agra.
I tour organizzati visitano solo la parte più bella, il lato ovest, a pagamento (600 rupie per gli stranieri, 40 per gli indiani) e poi ripartono. Chi invece viaggia per conto proprio dovrebbe fermarsi almeno due o tre giorni, per scoprire i templi a poco a poco, iniziando da quelli di sud-est.
Basta ingaggiare un autista di tuk tuk per andare sul sicuro e ottimizzare i tempi. Inutile elencare complicatissimi nomi di templi (Chatarbuja, Bijamandala Temple, Duladeo temple, Khandariya, Chitragupta e via dicendo) che non ricorderete più una volta letti o visitati.
Ciò che vorrei trasmettere è la sensazione di meraviglia che si prova quando si cominciano ad individuare, tra sculture di diverse dimensioni, le prime scene erotiche: l’eloquenza del Kamasutra incisa sulla pietra da artisti ignoti, con un livello di perfezione sublime.
Non tutti i templi hanno sculture erotiche ma ciascuno colpisce per l’elegante architettura, le statue di divinità sempre diverse, i giardini curati che rendono l’atmosfera rarefatta e fuori dal tempo.
L’apoteosi dell’India tantrica è nel magnifico tempio di Lakshmana, nel lato ovest. L’ufficiale inglese che lo scoprì per caso nell’‘800 ne fu sconvolto. Durante la rigorosa morale vittoriana dell’epoca
riferì di aver scoperto delle rovine con sculture “piuttosto audaci”.
Eppure le guide indiane, abituate a trattare con turistici occidentali “open-minded”, sostengono che i loro connazionali ancora faticano ad approcciare alle sculture senza tabù.
Molti indiani considerano il tantra alla stregua della magia nera, senza rendersi conto della ricchezza di una filosofia e di una cultura articolata e complessa, che
mira a raggiungere l’ascesi spirituale attraverso l’unione mistica tra uomo e donna.
In ogni caso pare che le sculture erotiche – ce ne sono decine tra innumerevoli scene di guerra, danza, culti, animali, divinità – siano state
scolpite solo per rappresentare l’interezza della vita quotidiana di una civiltà molto evoluta e aperta, anche nei costumi sessuali.
E questo avveniva mille anni fa.
Le donne sono tutte bellissime e flessuose, con vesti trasparenti e prosperosi seni nudi – come nell’immaginario ideale degli scultori – e perfino tatuaggi.
Una di queste, in una posa molto seduttiva, ha uno scorpione tatuato sulla gamba sinistra, che vuole indicare il suo desiderio di fare l’amore.

La maggior parte delle sculture ha motivi orgiastici. Le figure principali (uomo-donna) sono sempre affiancati da un paio di “assistenti” di sesso diverso che li aiutano a compiere acrobazie del Kamasutra conosciute o difficilmente ripetibili.
Quella dell’uomo a testa in giù è chiamata dai locali “mission impossible”.
Molte rappresentano semplicemente l’amore di coppia, con sguardi di incredibile passione, ma ci sono anche scene più forti, come quella dei guerrieri in astinenza che si accoppiano con una giumenta, con personaggi di contorno che si coprono il volto con una mano, per pudore o vergogna.
Tra i templi del lato ovest, circondati da giardini in fiore curatissimi, si avverte una energia vibrante e leggera, “good vibes” come dicono da queste parti.
La perfetta conclusione della visita è prendere parte ad una vera cerimonia induista, assolutamente popolare, nell’unico tempio rimasto intatto – molte statue sono state vandalizzate nei secoli passati -, dedicato alla divinità che crea e distrugge Shiva, con un gigantesco lingam (simbolo fallico che rappresenta una forma di Shiva) al centro.

Ogni sera intorno alle 18.30 si svolge una preghiera con canti e offerte di fiori e incensi (puja) guidata da un bramino locale.
Tutti scalzi intorno al lingam di pietra, con i giovani aspiranti bramini che suonano strumenti indecifrabili e cantano a squarciagola i bhajan, i tipici canti devozionali, mentre il prete benedice chi si inginocchia davanti a lui.
Chi entra suona una campana, poi si aggrega al gruppo. Passano bambini abbigliati a festa, anziani timidi e minuti, donne bellissime con il velo del sari sulla testa luccicante di paillettes e una schiera di figli piccoli a cui insegnare i gesti per onorare la divinità.
Forse è più devozione che spiritualità ma la sensazione è che la ritualità dei gesti ripetuti, seppure esteriori, l’abbraccio avvolgente dei suoni, il profumo degli incensi,
contribuisca a dare senso, coraggio e forza quotidiana nelle difficoltà.
Quando si è vissuta fino in fondo la magia dei templi si può dedicare una mattinata o giornata ai dintorni.

Una escursione imperdibile è alle Raneh Falls, nel Panna national park, a 25 km da Khajuraho. Per risparmiare si può anche andare in tuk tuk, rimbalzando un bel po’ sulle buche delle sterrate.

L’ingresso al parco è comprensivo di guida, che però vi chiederà comunque una mancia; in passato persone incaute sono state aggredite dai coccodrilli o sono cadute dalle alte pareti che circondano il fiume Ken.
Le cascate sono senza acqua nella stagione secca ma forse ancora più spettacolari che nella stagione dei monsoni.
Dall’alto si vedono chilometri di gole originate da un antichissimo vulcano, le rocce sono di vari materiali e spaziano dal rosso al grigio al nero.
Durante il tragitto nella giungla si incontrano cervi, antilopi, manguste, macachi, facoceri, iene. Nel finale, il binocolo della guida vi servirà per vedere enormi coccodrilli stesi al sole.
Meglio mantenere le giuste distanze.
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