di Patrizia Caiffa – Di una vacanza nella Repubblica di Mauritius nell’Oceano Indiano, a destra del Madagascar, quello che rimane più impresso non sono, come tutti immaginano, le spiagge cristalline e le acque di tante sfumature di azzurri. Da ricordare poi che Mauritius è un nome maschile (Maurizio) ma l’isola è una, non si dice “le” Mauritius: ce n’è un’altra più piccola e selvaggia che si chiama Rodrigues, ma bisogna raggiungerla in aereo dalla capitale Port Louis.
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Negli occhi restano invece i cieli immensi, le nuvole grigie, bianche o nere che accarezzano il mare o abbracciano le verdi montagne dalle forme più strane. Ce n’è una, mentre si percorre la motorway che attraversa l’isola da nord a sud, che ha in cima una palla miracolosamente in bilico su una punta. Altre assomigliano a profili di cani Labrador o a King Kong.

La montagna più famosa, che è anche patrimonio Unesco dell’umanità, le Morne Brabant, ha una presenza scenografica sia dopo averla scalata per un colpo d’occhio sul paesaggio spettacolare, sia alzando lo sguardo verso l’alto mentre si sguazza in mare. Oppure c’è la Roccia che piange, una lunga scogliera che con le onde alte sembra versare lacrime davvero.
E poi ci sono i tramonti schiantati di sole, i crepuscoli infiniti dall’indaco all’arancio, gli arcobaleni improvvisi tra un acquazzone e una schiarita, le terre di sette colori, le distese infinite di canna da zucchero utilizzata per il famoso rum locale, le cascate da raggiungere faticosamente dopo aver guadato per otto volte un fiume nero in una giungla impervia, aggrappandosi alle liane durante ore e ore di cammino.

Ancora, ci si può emozionare di fronte all’allegria dei delfini con i loro salti rocamboleschi. Provare a nuotarci accanto (molto difficile quando il mare è un po’ agitato e le barche dei turisti sono troppe). Si può avere la fortuna di un incontro a sorpresa con una tartaruga marina intenta a mangiare alghe a due metri dalla riva, noncurante di te umana che la osservi per un quarto d’ora con la nuova maschera, che ti permette sì di respirare in acqua, ma anche di somigliare pericolosamente a Jeeg robot.
Al mattino è lieve il risveglio con i canti dei coloratissimi uccelli che saltellano tra palme, manghi, cespugli di ibiscus e di mille altri fiori e piante tropicali. Durante la colazione in balcone allieta l’anima disseminare bricioline per questi piccoli Pollicino, giocando a chi riesce ad avvicinarli di più.
E’ divertente in febbraio assaggiare i longan (o occhi del dragone perché assomigliano davvero a pupille), frutti della stessa famiglia dei più famosi litchi. O lo zatte (in italiano mela cannella), un pomo verde spigoloso per nulla attraente: all’inizio non si sa come mangiarlo ma quando lo si scopre cela tra i suoi tanti semi una polpa dolcissima e zuccherosa.

E’ affascinante e interessante incontrare lungo le strade, sempre a febbraio, i carri con le statue in cartapesta delle divinità indù Shiva, Parvati, Durga o Ganesh portati in spalla dai pellegrini che camminano giorni e giorni a piedi, per poi confluire tutti nel lago sacro Ganga Talao o Grand Bassin per la famosa festa di Maha Shivratree, la luna nuova di Shiva, che celebra il suo matrimonio con la sposa Parvati.
Qui i fedeli fanno le loro puja con fiori, incensi, cocchi, banane, mangiano riso biryani servito in pezzi di carta, si bagnano nelle acque come nel Gange.

Nell’itinerario turistico classico si visitano le distillerie di rum – è oggi la produzione più pregiata della Repubblica di Mauritius, indipendente dal 1968 – nelle varie e antiche Domaine, sfarzose dimore coloniali con estese tenute di canna da zucchero e giardini, a ricordare i privilegi del colonialismo.
Senza dimenticare però l’alto prezzo pagato dalla plebe migrante per il solito lucro e i commerci di pochi: nella eclettica capitale di Port Louis si può visitare infatti l’Aapravasi Ghat, un monumento storico nazionale anch’esso Patrimonio Unesco, dove tra il 1849 e il 1920 si è realizzato un gigantesco esperimento sociale.

In questa sorta di Ellis island mauriziana sono arrivati quasi mezzo milione di engagé o indentured, lavoratori a contratto, il 97,5% dall’India (ma anche da Cina, isole Comore, dal Mozambico, dal Madagascar e dallo Yemen.
Povera gente imbarcata su navi – dove viaggiavano per 5/ 7 settimane – e ingaggiata a contratto per lavorare, in condizioni penose, nelle piantagioni di canna da zucchero. All’epoca Mauritius era infatti tra i massimi produttori ed esportatori mondiali di zucchero.
Abolita da poco la schiavitù le persone venivano pressoché ingannate con la promessa di un lavoro che però di fatto legava ai tenutari e privava di tutte le libertà: chi non si presentava al lavoro, chi disobbediva agli ordini, voleva cambiare vita o tornare in patria veniva incarcerato.
Questi volti tristi e sfruttati degli antenati costituiscono le radici della popolazione mauriziana di oggi: il 97% ha origini indiane e lo si vede dai tratti inconfondibili, dai saree delle donne e dai riti indù ben visibili. Ora la lingua ufficiale è l’inglese ma tutti parlano francese e creolo.
Ed è molto piacevole, segno di una amabile e pacifica convivenza tra religioni, scoprire ai crocicchi delle strade, piccoli altarini con madonne cristiane a fianco di tempietti indù, mentre in alcuni villaggi canta il muezzin e si mangia cibo halal.
L’avvicinarsi alla bellezza non è però immediato.
Rispetto ad altre località tropicali o equatoriali in cui si è totalmente immersi nella natura, a Mauritius l’impronta umana dello sviluppo legato al turismo, anche se fatto con saggezza, intelligenza e cura, si sente.
Le tante spiagge pubbliche ombreggiate di casuarine (alberi che fanno volare al vento aghi leggeri simili a quelli dei nostri pini) sono pulitissime, con bagni e docce gratuite, chioschi che vendono street food e camion di gelati che suonano ossessivi carillon per segnalare il loro arrivo. Bellissime e affascinanti ma addomesticate.

Per raggiungere le piccole isole costiere dove ci sono mari più paradisiaci per fare snorkeling bisogna acquistare escursioni in catamarano o motoscafo a prezzi europei (come tutto il resto). Quasi tutte le coste – a parte le zone a sud vicino ai parchi, le migliori – sono infatti cementate da resort, appartamenti, hotel più o meno invasivi, più o meno lussuosi, più o meno brutti o al contrario fantastici ed eco-sostenibili.
Ma soprattutto c’è il traffico che non ti aspetti. Noleggiare una macchina è il modo più facile ed economico per visitare l’isola e si impara presto la guida a destra ereditata dagli inglesi, arrivati dopo portoghesi e francesi. In un isola grande un terzo della Sicilia, con un 1 milione e 300 mila abitanti, circolano almeno 1 milione di veicoli. Nelle ore di punta, soprattutto intorno a Port Louis, dove svettano grattacieli di multinazionali e banche o immensi centri commerciali di proprietà cinese, si creano file e blocchi alla maniera delle tangenziali italiane. E’ il prezzo del benessere, che conosciamo bene e da cui ogni tanto si vorrebbe fuggire.

Se non si vuole fare una vacanza finta chiusi nel resort ma spingersi ovunque per esplorare bisogna tenere in conto anche questo aspetto, il più fastidioso in alcuni momenti della giornata. E’ però sicuramente un viaggio facile a misura di famiglia. I francesi, che qui sono di casa per la vicinanza alla loro isola La Réunion, lo sanno bene: avvantaggiati dalla lingua sono ovunque con due o tre bambini, anche piccolissimi.
Senza contare che, nei mesi delle piogge, ci si può imbattere nella temibile avventura del passaggio di un ciclone. Stavolta si chiamava Freddy: l’occhio del ciclone, con venti a 300 km orari, era a 120 km a nord dell’isola. Per un giorno sono stati bloccati i voli, chiuse le scuole, gli uffici, i negozi, un intero paese paralizzato. Chiusi in casa ad ascoltare il soffio pauroso del vento e il rumore della pioggia forte, controllando l’itinerario di Freddy sui siti appositi che mostrano il percorso dei cicloni da satellite. Con un sospiro di sollievo una volta passato.
Ecco perché in alcuni casi la bellezza, nell’isola Maurizio, ha il sapore della conquista.
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