di Margherita Vetrano – Ogni 25 novembre si celebra in tutto il mondo la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. Oggi diamo voce alla storia di Anna, che chiameremo così per motivi di privacy.
Anna ce l’ha fatta: è una di quelle donne che sono riuscite a sfuggire al proprio carnefice e sono andate oltre, denunciando e chiedendo giustizia.
Incontrarla, in una fredda mattina di novembre, è un’alchimia immediata, riscaldati dal suo sorriso mediterraneo e dal suo sguardo accogliente.
Quando inizia il suo racconto lo fa lentamente, ma con voce ferma e limpida, scandendo bene i ricordi che ripercorre assieme a noi, in un salto indietro nel tempo:
“La mia storia è accaduta più di dieci anni fa ma per me è come se non fosse passato nemmeno un giorno, perché ogni volta che ne parlo, tutto torna indietro: le immagini, le sensazioni. E’ una ferita che penso continuerà a sanguinare per sempre, nonostante mi sia rialzata e sia riuscita a ricostruirmi una nuova vita.”

Uno dei temi più importanti nella violenza di genere è il fare rete; la mancanza di vicinanza e della possibilità di poter contare su qualcuno, rendono sole.
“L’uomo che avevo sposato ha tentato di uccidermi“, confida Anna. “Mi sono resa conto che mi trovavo davanti a qualcosa di molto più grande di me. E’ stato in quel preciso momento che ho realizzato quanto fossi sola.”
Nel ricorrere all’aiuto della famiglia, in circostanze meno gravi, non era stata creduta e non sarebbe accaduto nemmeno quella volta.
“L’ascolto e l’accoglienza sono un tema fondamentale e anche per questo, nella fase successiva di ricostruzione della mia vita ho capito quanto fosse necessario parlare della mia storia e condividerla: potevo trovare ancora tante donne come me da aiutare prima che sia troppo tardi.
Esiste un tabù molto forte nelle donne che hanno subito violenza, che è il parlare dei loro vissuti.
E’ un tema forte perché se non riescono a farlo vuol dire che si sentono ancora in colpa per ciò che è accaduto. E’ una spirale dalla quale non si esce se non si è consapevoli, se non le si dà voce esternandola e rendendola pubblica. Esistono molte forme di denuncia, non solo quelle alle autorità ma anche quelle esposte alla propria comunità. E’ per questo che nel 2018 ho partecipato ad un convegno sulla violenza di genere e lo stalking, raccontando la mia storia.”
L’avvenimento che ha spinto Anna a fare outing è stato il femminicidio di un’amica e il rimorso di non essere riuscita ad aiutarla.
ll racconto è doloroso, Anna piange e si interrompe ma trova la forza di riprendere:
“Quando conobbi mio marito, mi innamorai della sua voglia di stare dalla parte dei più deboli e di essere una figura protettiva ma con il tempo emerse un carattere violento che iniziò un’escalation verbale, fino ad arrivare alla violenza fisica.”
“La violenza che ci riguardava era un forte substrato culturale che affondava le radici nella sua famiglia.
Sono stati proprio i familiari i primi ai quali ho chiesto aiuto per cercare di trovare la chiave nel suo passato: ma senza successo. Non c’è mai una violenza di genere che non derivi da una continuità di storia familiare“.
Poiché la storia si scrive in due, Anna negli anni successivi al divorzio ha ricostruito sé stessa, attraverso un percorso di terapia, affrontando difficoltà economiche pur di non chiedere aiuto alla sua famiglia che non l’aveva creduta quando più aveva bisogno.

Ha voluto capire e scoprire i motivi che l’hanno portata ad invischiarsi in una relazione mortale. Solo così sarebbe riuscita a ricominciare.
Ha approfondito la storia di genere della propria famiglia e lì ha trovato la chiave della rinascita in una genealogia femminile sottomessa e rassegnata.
“Quando ne ho parlato con mia madre, ricevetti la fetta di dolore più grande. Non si mostrò sorpresa dal menage violento anzi, tentò di convincermi che fosse normale e, quando le chiesi se fosse tranquilla a sapermi accanto ad un uomo così…rimase in silenzio”
Il tema familiare che invischia le relazioni malate rendendole inossidabili non è un tema che appartiene solo ad Anna ma a molte altre donne.
Non si muore solo per mano di un assassino ma per l’effetto fagocitante di un sistema malato e retrogrado.
“La soglia di alert riguardo alla violenza di genere è ancora troppo bassa a mio avviso. Non nasce mai dal nulla e si manifesta principalmente nella forma socialmente e culturalmente accettata del linguaggio. Questo veicola le rappresentazioni culturali nei confronti del corpo della donna che viene svilito ma che in realtà offende l’uomo debole”, riflette Anna.
Una donna che vive il dramma della violenza e ne esce, deve fare i conti essenzialmente con due aspetti: quello economico e quello sociale, fortissimo, della solitudine.
Rinascere psicologicamente, ritrovare fiducia e uscire dall’isolamento sono ostacoli invisibili alla comunità.
Anna è sopravvissuta a tutto questo.
Oggi è madre di una bella bambina e le insegna che i pericoli possono essere molto più vicini di quello che possiamo immaginare e che nella vita, quello che può sembrare amore, a volte, non lo è.
“Quell’uomo l’ho perdonato, perché ho dovuto innanzitutto perdonare me stessa per aver permesso che accadesse tutto quel che è stato. Ho cercato di capire, prendendomi la mia parte di responsabilità a livello di coscienza e crescita personale.
“Se non lo avessi incontrato, sicuramente non sarei la persona che sono oggi, non avrei incontrato l’uomo meraviglioso che oggi ho sposato e non avrei capito che in questa storia di mostri non ce n’era uno solo ma tanti, in primis io che ho cercato di gestire la cosa da sola senza chiedere aiuto, prendendomi delle responsabilità che mi competevano fino ad un certo punto perché avrei dovuto pretendere protezione dall’esterno, subito“.