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Home Se ne parla

Ucraina, perché nessuno crede più nella pace?

Le radici della guerra e l'Europa alla prova della pace: una opportunità persa

di Walter Falgio
4 Aprile 2022
in Se ne parla
Tempo di Lettura: 4 mins read
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Foto di Annette Jones da Pixabay

Foto di Annette Jones da Pixabay

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di Walter Falgio – La guerra tra Russia e Ucraina, scoppiata il 24 febbraio scorso, in poco più di un mese ha portato morte e distruzione. Come tutte le guerre ha devastato le vite di migliaia di donne e di uomini, traumatizzato nel corpo e nella psiche e costretto alla fuga bambine e bambini, ridotto in cenere luoghi di incontro e di convivenza.

Nel 2022 nessuna guerra dovrebbe essere dichiarata quale “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Condannare radicalmente il conflitto e chi lo ha provocato è una scelta di campo, differente da quelle più attese, scontate e non velatamente imposte dalla scena mediatica.

Foto di Annette Jones da Pixabay
Foto di Annette Jones da Pixabay

Una scelta di campo che esclude ipocrisie (non si può auspicare la pace armando la guerra), definita, critica, fondata su un approccio dialettico finalizzato alla comprensione di un contesto naturalmente complesso ma non di rado rappresentato con modalità e linguaggi livellanti e riduzionistici.

Pertanto, porsi domande e non pretendere di dare solo risposte, in simili circostanze, non solo è salutare ma anche doveroso.

Il punto di partenza fondante di tale criterio di analisi può essere individuato essenzialmente e non a caso nella ricostruzione storica.

Ambito a volte sottovalutato a fronte di letture basate esclusivamente sull’enfasi, sul flusso costante, ininterrotto ma terribilmente caotico delle informazioni provenienti dal fronte e, per definizione, difficilmente verificabili.

«Nel sistema della spettacolarizzazione di massa ciò che conta non è quello che viene raffigurato ma chi ne interpreta appieno la parte, davanti ad un pubblico che si attende una recita incisiva poiché emotivamente coinvolgente» (Claudio Vercelli).

Cronaca e ricerca, ovviamente, sono due ambiti di indagine differenti. Ma in entrambi i casi la scelta non facile di contenuti certificati e qualificati diviene una discriminante ineludibile, siano essi saggi scientifici, testi letterari, servizi d’inchiesta, documentari o agili webinar offerti in Rete.

Gli studiosi coinvolti in qualità di commentatori sono innumerevoli. Ogni quotidiano propone la firma dell’esperto in prima pagina.

A volte si tratta di specialisti di chiara fama, autori di decine di lavori sulla storia dell’Europa orientale e della Russia zarista o sovietica, in altri casi di figure meno prestigiose.

I temi di riflessione ogni giorno proposti ai lettori si affollano così tanto che risulta molto faticoso se non impossibile giungere a una sintesi.

Foto di wal_172619 da Pixabay
Foto di wal_172619 da Pixabay

Tuttavia la necessità di individuare percorsi utili per orientarsi su questo terreno scivoloso e intricato è stringente.

Forse può essere utile rimarcare che il dissidio oggi riesploso tra la Russia di Putin e l’Ucraina di Zelens’kyj ha origini datate, affonda le radici nelle guerre del Novecento, nei conflitti tra modelli politici e si acuisce con particolare evidenza negli ultimi due decenni, a partire dagli sconvolgimenti intervenuti nelle fasi di trasformazione post sovietica.

Parti consistenti e influenti della società ucraina, Paese composito sotto il profilo culturale e religioso, avviano un percorso di allontanamento dalla sfera di influenza russa che incontra anche l’approvazione degli Stati Uniti di George Bush, il quale, nonostante la contrarietà europea, nel 2008 tentò di favorire l’adesione di Kiev (e della Georgia) alla NATO.

L’aspirazione all’indipendenza ucraina, ammettendo ancora una volta la pluralità di storie (ebraiche, polacche, armene, asburgiche, tartare) che confluiscono nei confini dello Stato, si accompagna alla costruzione (e ricostruzione) di una identità nazionale basata su un’antica aspirazione alla democrazia.

Questo processo culmina nelle proteste violente del 2000, nella rivoluzione arancione del 2004, nella guerriglia di “piazza Maidan” tra il 2013 e il 2014, dove riemergono con evidenza anche le frange più radicali e violente, sostenute da formazioni paramilitari di estrema destra.

Si tratta di componenti attualmente minoritarie nel panorama politico parlamentare ma con un profondo e inquietante radicamento ideologico, aspetto monitorato e usato in chiave anticomunista dall’intelligence americana durante la Guerra fredda.

Putin teme le spinte ucraine nazionaliste, non concepisce un’identità geopolitica del Paese già definito “prossimo vicino“, riannette la Crimea, difende e riconosce le repubbliche filorusse della regione del Donbas.

Il presidente russo mira ad affermare una nuova egemonia e un nuovo ordine multinazionale richiamando, da un lato, suggestioni imperiali e tradizionalismo ideologico e candidandosi, dall’altro lato, a perno degli scambi primariamente commerciali tra Europa, Cina e India e a interlocutore privilegiato nel mercato delle fonti energetiche.

In quest’ottica è abbastanza intuitivo comprendere come, tralasciate le fasi distensive, l’allargamento a est della NATO rappresenti non da oggi per Mosca una seria minaccia alla sicurezza interna e quindi possibile causa di instabilità e disgregazione.

Ma il ricorso alle armi quale risposta ora inaspettata è stato, come detto, non solo una scelta deprecabile, altresì probabilmente deleteria dal punto di vista strategico.

In questa maniera la Russia si autocondanna all’isolamento internazionale e invita gli Stati Uniti a una golosissima sfida, raccolta con linguaggio belligerante e aggressivo da Biden, che potrebbe determinare l’indebolimento decisivo di Putin nonché la possibilità di esercitare (e minacciare) pressioni sulla Cina, vero e primo “nemico” di Washington.

La cosiddetta politica di “interdipendenza tribale” USA (Jeremy Adelman), nonostante lo scacchiere globale multipolare e contraddittorio, ne uscirebbe rafforzata.

Le premesse ideologiche dell’atlantismo bideniano appaiono contestabili, «a partire dalla centralità attribuita al presunto comune denominatore democratico. Che appare spesso anacronistico o problematico, rimandando ai codici del “mondo libero” della guerra fredda o a quelli dei fallimentari progetti neoconservatori di promozione della democrazia d’inizio XXI secolo» (Mario Del Pero).

Foto di Mediamodifier da Pixabay
Foto di Mediamodifier da Pixabay

In questo scenario, infine, l’Europa che fa? Ha forse perso un’occasione straordinaria.

In primo luogo quella di contribuire con tutti i mezzi in campo a evitare la guerra, annunciandola ben prima che fosse scoppiata, promettendo anticipatamente gli aiuti militari all’Ucraina, agitando sanzioni (boomerang) senza precedenti contro la Russia.

Il Vecchio continente gioca in casa la partita antirussa regolata decisamente dagli Stati Uniti e conferma la corsa agli armamenti.

Interpreta un ruolo minore, temerario e, con significative probabilità, in perdita.

E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. (Don Lorenzo Milani)

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Walter Falgio

Walter Falgio

Padre di Beatrice e Gabriele, nato nel 1970, anno dello scudetto del Cagliari. Scrive su B-hop perché ancora convinto che la parola data sia più importante di una notifica sul display e che opinare sia una virtù. Predilige i libri di carta, i sorrisi “in presenza”, e le birre artigianali de sa Sardigna.

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