di Rinaldo Felli – Una volta, tanto tempo fa, c’erano i giochi con i gladiatori. Vi partecipavano, rischiando la vita, quelli che all’epoca erano considerati i reietti della società: criminali, schiavi, galeotti, prigionieri di guerra. In queste settimane una serie televisiva trasmessa da Netflix , tutt’altro che distopica, ha ottenuto rapidamente un’audience record (oltre 140 milioni di visualizzazioni in poche settimane) raccontandoci lo Squid Game, il Gioco del Calamaro.
Siamo nella ricca ma diseguale Corea del Sud dove, in una specie di orrorifico “Giochi senza Frontiere”, si affrontano 456 moderni reietti, 456 persone scelte tra disoccupati, indebitati, falliti, profughi, delinquenti.
Il motivo che li ha spinti ad accettare di giocare è stato il ricco montepremi, pari a 45 miliardi di won sudcoreani (33 milioni di euro). Per vincerlo si affrontano, senza esclusione di colpi, in alcuni innocenti giochi dell’infanzia come ad esempio “Un, due, tre stella”.
Peccato però che dell’infanzia e soprattutto di quell’innocenza sia rimasto solo un vago ricordo in quanto, il novello gladiatore, per vincere il ricco montepremi, dovrà eliminare fisicamente ed in modo crudele tutti gli altri contendenti.
L’eccitante e sanguinolento spettacolo è destinato ad un ristretto club di miliardari annoiati che, davanti un maxi schermo, effettuano le loro ricche scommesse sul potenziale vincitore.
I nove episodi, ambientati all’interno di un rutilante e coloratissimo game show, scritti e diretti da Hwang Dong-Hyuk, sembrano voler esprimere un’aspra e disperata critica al modello economico imperante in gran parte del mondo.
Sulle note dolci e suadenti del “bel Danubio blu” i concorrenti, consapevoli di avere a disposizione l’ultima occasione per rientrare nel contesto sociale, si battono avendo come loro unico obiettivo il benessere personale, il profitto individuale ben disposti a qualsiasi efferatezza, nonché a qualsiasi compromissione della propria morale pur di raggiungerlo.
Quindi nulla di diverso dalle distorsioni del modello capitalistico vigente nel quale, la persona che per diversi motivi si trova ai margini, deve lottare ferocemente con altri disgraziati per “rimediare” una qualsiasi attività lavorativa spesso priva di qualsiasi diritto e conseguentemente assimilabile ad una forma moderna di schiavitù.
Un modello all’interno del quale, anziché stimolare la cooperazione per il benessere comune ed un’equa redistribuzione della ricchezza prodotta, si continua a ricercare e premiare la competizione esasperata nonché l’individualismo più sfrenato.
Per Netflix l’enorme e rapida popolarità della serie si è tradotta in una forte spinta ai ricavi e alla sua quotazione in borsa, motivi per i quali è molto probabile attendersi una nuova seconda stagione.
Ma trattandosi ormai di fenomeno di costume i benefici economici si sono trasferiti anche in altri settori: è incrementata del 97% la vendita del tipo di scarpe indossate dai concorrenti e del 62% quella per le tute da lavoro rosse utilizzate dai guardiani (peraltro utilizzabili anche nel caso si voglia imitare qualche protagonista della “Casa di carta”).
Un fenomeno di costume che però rischia di creare anche seri danni nei più giovani. Infatti, nonostante la serie sia vietata ai minori di 14 anni, si segnalano episodi allarmanti di emulazione.
Bambini presi a botte perché sconfitti in un gioco, il gesto della pistola puntata a chi ha perso ad “Un, due, tre stella”, accadimenti che nel nostro paese hanno spinto la Fondazione Carolina a lanciare una petizione su Change.org per interrompere la trasmissione di Squid Game.
Ma a prescindere dall’intento vagamente censorio della petizione è comunque consigliabile di evitare la visione della serie ai bambini con età inferiore a quella raccomandata o, laddove non fosse possibile, parlarne con loro contestualizzando ciò che hanno visto.