(di Rinaldo Felli) – Per chi – come noi – è amante della libertà e della bellezza l’eventuale chiusura di Radio Radicale è una notizia pessima.
La storica emittente che da 40 anni trasmette in diretta le sedute parlamentari e segue tutte le attività istituzionali rischia, dal 21 maggio di quest’anno, di interrompere definitivamente le trasmissioni per causa della decisione governativa di non rinnovare la convenzione che da 20 anni le permette la sopravvivenza.
E’ all’inizio del 1976 che in un appartamento di soli 60 mq, a Roma, quartiere Gianicolense, un ristretto gruppo di militanti inaugura le dirette di Radio Radicale.

E’ l’anno nel quale una seconda sentenza della Corte Costituzionale spalanca la strada al fenomeno delle radio libere.
Eugenio Finardi canta:
“Se una radio è libera ma libera veramente piace anche di più perché libera la mente”
e attraverso quel brano racconta ciò che sta accadendo in tutto il territorio italiano: il proliferare rapidissimo delle radio private.
Sono anni difficili, sono gli anni di piombo, una fitta ed inespugnabile coltre di violenza ha offuscato la convivenza civile. Le strade sono sporche di sangue, ogni giorno c’è un ferimento, un omicidio, un atto terroristico, si esce di casa con la paura di non farvi ritorno.
Sono anche gli anni dell’austerity, bisogna risparmiare energia, spegnere le luci presto la sera, i locali pubblici obbligati ad abbassare le loro saracinesche prima della mezzanotte, il prezzo della benzina ha raggiunto livelli elevatissimi erodendo gli scarsi risparmi degli italiani, la cupezza pervade il tempo.
Il Paese appare spaventato, bloccato, irregimentato dalle norme sempre più severe per garantire l’ordine pubblico. Si sente il bisogno di una ribellione allo status quo, di liberare le menti, di pensare, immaginare giorni diversi e quel bisogno trova un imprevedibile sfogo nella creazione delle radio private.
Sono soprattutto giovani sognatori a mobilitarsi, spesso in modo molto artigianale, quasi casalingo. Organizzano dei rudimentali crowfunding mettendo insieme le loro modeste “paghette”, chiedendo un piccolo contributo a parenti ed amici per acquistare un baracchino che a stento lancia il segnale oltre la porta di casa del vicino.
Lo fanno perché sentono urgente la necessità di raccontare una speranza, d’indicare al Paese un nuovo percorso. E’ il tempo in cui a Cinisi, in Sicilia, un ragazzo di nome Peppino Impastato immagina di attaccare e denunciare la mafia dando vita ad una radio libera autofinanziata: Radio Aut.

E’ in questo contesto storico che s’inserisce Radio Radicale. Lo fa con il fine di permettere agli ascoltatori di
“conoscere per deliberare”,
come ancora oggi recita la frase di Luigi Einaudi sul sito internet dell’emittente.
Diversamente da tante altre radio l’emittente non ha mai inteso fare controinformazione e neanche fungere da organo di partito ma piuttosto, inizialmente con mezzi di fortuna e bassi costi, cerca di realizzare un sistema di servizio pubblico alternativo al monopolio della Rai.
E’ così che in 43 anni di trasmissioni Radio Radicale riesce a diventare l’emittente dove ascoltare integralmente le sedute del Parlamento, dei congressi dei partiti, dei grandi processi, è lo spazio libero, laico dove confrontarsi sulle grandi battaglie, soprattutto sulle campagne afferenti i diritti civili promosse dal Partito Radicale.

E’ la radio delle dirette interminabili, vulcaniche del leader storico del Partito Marco Pannella ma anche quella che inaugura il “filo diretto” con i cittadini, che concede spazio alle comunità d’immigrati, che entra nelle carceri per comprendere e narrare quel mondo, è la Radio, tra gli altri, di Adele Faccio, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia, Adelaide Aglietta.
Qualche numero estrapolato dal sito della Radio:
23.838 udienze di processi, 14.129 sedute parlamentari, 225.291 oratori in archivio, 377.001 schede audio.
Questi numeri ci aiutano anche a comprendere le dimensioni e l’importanza dell’archivio in possesso di Radio Radicale, archivio considerato dagli storici come una fonte importantissima per capire quanto accaduto in Italia negli ultimi cinquanta anni.
E’ lecito quindi domandarsi: quale motivo spinge l’attuale governo a non rinnovare la convenzione con l’emittente?
Può essere sufficiente una motivazione economica (la convenzione ha un costo di circa dieci milioni, ovvero lo “0,Niente” del bilancio statale) per cancellare una storia edificata sui diritti civili, sul libero pensiero e sulla laicità dell’informazione?
Giustamente si sono valutati i costi. Ma i benefici per la tenuta della coscienza e della convivenza civile, per la divulgazione dell’arte politica, per la conservazione della memoria storica qualcuno si è preso la briga di calcolarli?