(di Rinaldo Felli) – Perché rappresentare ancora “I giganti della montagna”? Cosa può aver spinto Gabriele Lavia, attore e regista tra i più celebrati ed affermati del Pantheon teatrale italiano, a cimentarsi magistralmente con l’opera incompiuta di Luigi Pirandello? La risposta è sicuramente una: la sconvolgente attualità del testo.

Iniziato da Pirandello nel 1931 e mai completato a causa del decesso dell’autore, “I giganti” sembrano essere scritti oggi, anzi forse addirittura domani. Ancora una volta, come lo è stato per i “Sei personaggi in cerca d’autore”, Pirandello utilizza il meccanismo del teatro nel teatro per rappresentare un luogo ai confini del vero, dove la rappresentazione del verosimile conduce lo spirito dell’attore a protendersi verso l’Oltre, verso ciò che spesso riconduciamo a parole come mistero, divino, infinito.

E’ questo che accomuna gli abitanti di “Villa Scalogna”, attori sperduti e disperati in fuga dalle forme stabili che la vita gli ha imposto, dalle trappole, spesso subdolamente invisibili, che li costringono a modelli distanti e diversi da quello che realmente vorrebbero essere.
A questi auto-esiliati Cotrone il Mago, lo Sciamano che si è dimesso da tutto – decoro, onore, dignità, virtù – offre un luogo non luogo, un tempo non tempo.
Un posto dove determinare accadimenti in bilico tra realtà e fantasia, creare magie di un istante, sollecitare poetiche illusioni che permettano di abbracciare il senso più profondo del proprio essere, guadagnare frammenti di Oltre, porsi Oltre l’inutilità di una vita in trappola.
Agli orli della vita, ai margini della società, volutamente ghettizzati ma nello stesso tempo solidali fra loro, privi di antagonismi, di lacerazioni, gli Scalognati potrebbero vivere permanentemente in uno stato celestiale di prossimità con l’infinito.

Cotrone dixit:
“Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stesso stupore. Udiamo voci, risa, vediamo nascere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbagliati dal troppo sole della nostra isola”.
Sono dei diversi, diversi innocenti, diversi puri dei quali, chi possiede il potere per gestire la vita-trappola, non può temerne l’attività. Questo almeno fino a quando arriva alla Villa la Contessina Ilse, con la sua idea di teatro pedagogico e con il conseguente tentativo di convincere Cotrone ad uscire dal cerchio magico di Villa Scalogna, da quella ristretta élite in grado di ascoltare la parola alta di cui si è circondato.
La Contessina vuole portare il Teatro a chi ha bisogno d’insegnamento, di essere educato alla cultura, alla bellezza, alla sapienza, vuole migrare nella terra di coloro che vivono con brutalità, rozzezza, nella terra dei selvaggi, dei Giganti. Scrisse Giorgio Strehler in occasione del suo secondo allestimento dei “Giganti”:
” I giganti siamo noi, in agguato nella vita di ogni giorno, ogni qual volta ci rifiutiamo alla poesia e, con la poesia, all’uomo”.
Ad indurre Luigi Pirandello a scrivere la sua opera furono presumibilmente i sentimenti di amarezza e delusione per l’esperienza fascista. La suggestione che l’aveva spinto, all’indomani del delitto Matteotti, a richiedere la tessera del Partito Fascista ed ad apprezzare, a suo dire, le doti tragiche ma necessarie di forma e movimento di Benito Mussolini era ormai morta.
A darle il colpo finale probabilmente fu l’ordine del Duce d’impedire le repliche di una sua opera: “La favola del figlio cambiato”, proprio l’opera che la Contessina Ilse vorrebbe rappresentare per i “Giganti”.

Ecco quindi che la domanda da noi posta inizialmente trova una sua conferma nelle tracce della quotidianità, dove è facile trovare analogie e preoccupanti somiglianze con ciò che portò il drammaturgo a scrivere l’opera.
Oggi, come nello ieri pirandelliano, abbiamo la viva percezione che i “Giganti” siano nuovamente tra noi. Lo sono con le loro semplificazioni brutali, con il disprezzo per le arti, le scienze, l’odio per le diversità di ogni genere.
Nuovi “Giganti” a cui piuttosto che l’Oltre interessa l’Oltremondo virtuale, quello nel quale, come ci racconta Alessandro Baricco nel suo ultimo libro, l’infinito è stato sostituito dal Tutto.
“Se puoi arrivare al fondo del Tutto, l’Infinito non esiste”.
Nel momento in cui, con un semplice click, ciascuno di noi ha la possibilità di ascoltare tutta la musica del mondo, di accedere a tutti il film del mondo, a tutti i contenuti del mondo perché continuare a sbattersi ricercando un vacuo Infinito?
Ed è proprio a causa dell’appropriazione del Tutto, che i nuovi “Giganti” si presentano con un’aumentata consapevolezza di sé stessi ed un conseguente pericoloso individualismo di massa.

Dobbiamo essere quindi grati a Gabriele Lavia di averci riproposto quest’opera, regalandoci peraltro momenti di indimenticabile, struggente poesia.
La percezione di trovarsi di fronte ad uno spettacolo magico la si ha immediatamente, all’alzarsi di un sipario sporco, vecchio, che apre lo sguardo dello spettatore alla visione stupefatta di una sala teatrale ormai in rovina, ferita mortalmente, sventrata, decadente e fascinosa nello stesso tempo. Teatro nel teatro.
Si potrebbe acquistare il biglietto esclusivamente per godersi il finale del primo atto dove l’ormai settantasettenne attore sale su un carretto e, con alle spalle una luna che s’insinua nell’immensa crepa del teatro, intona a squarciagola un canto siciliano per salutare una notte di sogni e di fantasmi.
Ma è l’intero spettacolo a regalarci attraverso la bravura interpretativa dei sui 23 attori, all’uso sapiente e ricco di scene, costumi, luci, maschere, coreografie e alla regia fisica, potente, rituale dello stesso Lavia ciò che Pirandello fa recitare a Cotrone:
“La vita è vento, la vita è mare, la vita è fuoco “
Dopo la messa in scena al Teatro Eliseo di Roma Cotrone e Lavia torneranno a Villa Scalogna nella stagione teatrale 2019/2020.