di Daniele Poto – In senso specifico verrebbe voglia di dire “O la Borsa o la vita”. E le società calcistiche italiane sembrano riflettere su questo dualismo puntando sul secondo dei due termini avversativi, rinunciando alle lusinghe della finanziarizzazione speculativa per abbracciare una formula economica più libera e meno condizionante.
Ci sembra un’ottima notizia per lo sport più popolare. Verso il proposito di recuperare la dimensione etico, ludica, tecnica, che è propria a ogni attività agonistica.
Rinnegando il progetto speculativo, la dimensione delle società per azioni con fini di lucro, una macchina economicista che si è messa in moto 20 venti anni fa e non è stata ancora dismessa, nonostante che a Piazza Affari per i tre club italiani (Lazio, Roma, Juventus in ordine cronologico di esperienza) l’esperienza si sia rivelata rovinosa, condizionante e senza nessuna apertura per un futuro diverso.

L’esempio lo offre la Roma che dopo venti anni di calvario in Borsa (le sue azioni oggi valgono un decimo di quelle emesse al collocamento, con grande pena degli azionisti) ha messo in moto, per impulso dei nuovi proprietari americani- i Friedkin- la procedura per uscire da questo meccanismo infernale.
I gestori del club hanno ricevuto il placet dalla Consob, mossa necessaria ma non determinante, e ora stanno cercando di rastrellare le azioni dai piccoli azionisti per giungere a quel 95% di possesso che permetterà la libera scelta di uscita.
L’esperienza della Borsa in definitiva non ha regalato soddisfazioni al management (dal pioniere Sensi al suo successore Pallotta), ai tifosi, indifferenti al fenomeno, e, tanto meno, agli azionisti che hanno visto progressivamente depauperato il valore dei propri titoli, così ingenuamente coltivati. Sempre sperando in una svolta che non c’è mai stata.
Il bilancio dell’esperienza per il calcio italiano è presto detto: scarsissimi vantaggi e nessun business nonostante l’autorizzazione a veicolare possibili fini di lucro.
Ma del resto appare palese a tutti che il calcio italiano simile a un Titanic, sempre sull’orlo del fallimento per la palese sproporzione tra uscite (acquisti giocatori in primis) e entrate (diritti televisivi, incassi) non ha mai potuto coltivare l’illusione di essere un’industria competitiva e con tutte le carte in regola per ben figurare nel mondo degli affari e della finanza, anche considerando Calciopoli e la sua pessima immagine etica (calcio scommesse, match fixing, razzismo, fenomeno violento degli ultrà).
L’uscita imminente della Roma dalla Borsa apre una possibilità di purificazione e di ritorno alle origini. E’ un’iniezione di sano realismo di fronte ai miraggi a suo tempo offerti prima nel 1981 con la legge 91, poi nel 1996 con la Legga 485 nel 1996.
La Lazio potrebbe mettersi in scia cancellando l’iniziativa che, non a caso, fu di un noto speculatore poi soggetto a un rovinoso crac, come Sergio Cragnotti.
Il suo motto sotterraneo era “Vivere al disopra delle proprie possibilità” e così la deregulation attuata per permettere alla Lazio di vincere uno scudetto anche entrando in Borsa, è stato pagata duramente negli anni seguenti. Il suo erede Lotito sta scontando per decenni un debito milionario con il Fisco che ha evitato il fallimento della società.
Più difficile che l’esempio sia seguito dalla Juve che peraltro ha pagato lo scotto più grande, vista la sproporzione tra i propri obiettivi e i risultati ottenuti, vedi le salomoniche eliminazione in Champions League, l’investimento sbagliato su Ronaldo. Nel suo caso le logiche sono legate alla holding degli Elkann di cui il calcio è solo uno degli addendi e forse neanche il più importante, nonostante la faraoniche uscite del club.
Anche più in generale l’ingresso dei club europei in Borsa si è rivelata un fallimento. Solo in 15, in maggior parte inglesi, hanno tentato questa via laterale ma l’esempio della Roma può generare un benefico corto circuito su tutto il sistema, indicando una strada di rinnovamento e di rigenerazione. Non si tornerà al calcio puro del passato secolo ma ci si libererà di un fardello che non ha portato alcun vantaggio al sistema e ai suoi aggregati.