di Federico Bonadonna * – Sono entrato in ospedale per una delicata operazione programmata e ho passato 36 ore in terapia intensiva.
Ci sono entrato con una bava di angoscia liquida nonostante la droga, perché avevo ancora nella testa il racconto sull’esperienza in intensiva del mio amico Andrea.
“È il posto più brutto del mondo”, aveva detto. Sapeva che doveva morire da un anno e mezzo, sapeva che sarebbe successo all’inizio della primavera e, dopo venti giorni in terapia intensiva aveva detto al primario di non farlo morire lì. “Vuole andare a casa sua?”, aveva chiesto il dottore. “Posso venire a morire anche a casa sua, basta che non sia qui”, aveva risposto prontamente Andrea.
I chirurghi dell’ospedale pubblico sono stati bravissimi, anche se il taglio è uno di quelli che parte dal fianco e arriva, dopo una curva pericolosa, allo sterno, insomma quello dei trapianti di fegato.
Contrariamente a dieci anni fa, questa volta hanno usato la giugulare per infondere i medicinali. Dopo 24 ore hanno smesso la morfina, io ho smesso di galleggiare sulla mia nuvoletta sudata e ho sentito il CVC, il catetere venoso centrale, che si allentava sul collo.
In terapia intensiva si perde la cognizione del tempo, almeno io l’ho persa,
ma sono quasi sicuro che fosse notte fonda quando sono venute due infermiere con aria festante, una bassina e moretta, l’altra alta, biancolatte e grassottella, a cambiarmi … oddio non ricordo più cosa mi hanno cambiato, ma io avevo un gran bisogno di parlare e quando ho capito che la bassina era sarda le ho fatto i complimenti per la sardità e lei, tutta orgogliosa, mi ha detto che è una cantante e che nel suo repertorio ci sono le canzoni di Maria Carta, al che le ho detto che da bambino avevo conosciuto Maria Carta e le ho chiesto se cantava anche No potho reposare, e lei allora l’ha intonata con una voce meravigliosa per qualche secondo e
sono stati gli istanti più belli da quando ero uscito dalla sala operatoria
con delle facce sconosciute incombenti sopra di me per un istante che mi chiamavano “Federico, Federico” e io che rispondevo “Sono io, ma voi chi siete?”
E loro: “Ti abbiamo operato, l’operazione è finita, non ricordi?” e adesso sì, ricordavo dov’ero ma subito due portantini mi hanno afferrato, un due e tre e cambiato lettiga e mentre ero sospeso da un letto all’altro ho pensato che avrei provato dolore e invece niente because morphin e poi mi sono ritrovato in ascensore verso la terapia intensiva.
E fin qui tutto bene, se non che, verso la fine della terapia intensiva, è arrivata un’infermiera a cui ho detto che il CVC si stava staccando al che lei si è messa smanettare sul mio collo con questo filo lungo che sentivo in gola e allora io le ho chiesto se fosse sicura di averlo posizionato in modo corretto e lei mi ha risposto in modo brusco: “Me lo devi insegnare tu come si mette il CVC?” e io le ho detto no, certo che no, il fatto è che il mio corpo, non io, sviluppa cheloidi come puoi vedere sul petto e ho paura che mi venga un cheloide anche sul collo.

Dev’essere stato per il fatto di aver ammesso la mia paura ad aver fatto addolcire l’infermiera, il suo viso si è decontratto e mi ha detto “mi scusi”, dandomi del lei dopo avermi dato del tu, e mi ha detto che non ce l’aveva con me, che era un problema di affaticamento per i turni “un po’ tosti”.
“in terapia intensiva sarai seguito quasi a vista perché c’è un infermiere ogni due o tre degenti, non come in reparto dove la proporzione è di uno a dieci”.
Dopo due giorni a letto e un’ora di visita al giorno tassativa perché ci sono pazienti trapiantati, memore dell’esperienza di dieci anni fa (ma con tre taglietti minuscoli in laparoscopia non con uno sbrego da 40 punti) quando un infermiere coattissimo mi calò la massima “Io te consijio d’arzatte ché er letto alletta, poi fa come cazzo te pare”, ho chiesto se mi potevo alzare.
Mi hanno risposto sì, che anzi mi dovevo alzare, però non da solo, “purtroppo adesso noi non possiamo” se ne riparla domani.
Così al terzo giorno mi sono alzato, mi hanno tolto il sondino dal naso, il catetere dal pisello e il primo spurgo all’altezza dell’appendice facendomi malissimo. Il medico che mi ha tolto lo spurgo si è attaccato con tutt’e due le mani e ha tirato cercando di strappare il tubo che forse il fegato stava già inglobando (o almeno questa è stata mia fantasia).
Dopo avermi cavato a forza lo spurgo dal fianco, mi ha medicato e se n’è andato. È tornato qualche ora dopo e mi ha chiesto scusa: “Forse noi medici non ci rendiamo conto del dolore dei pazienti”, ha detto, “ma siamo davvero pochi e voi siete tantissimi”. Ho pensato a Dostoevskij, io sono da solo e loro sono tutti.
Poi ha aggiunto: “Ti dimettiamo dopodomani”. “Dopo cinque giorni?”
“Questo è un ospedale ad alta intensità performativa”, ha detto, “non una lungodegenza”.
Così mi hanno tolto la flebo per l’alimentazione ed è passato quello con i baffi delle fette biscottate che mi ha lasciato un pacchetto e una ciotola di tè sul tavolino che io non sono riuscito a mangiare perché non potevo piegarmi e quando è passato a ritirare il vassoio dopo un’ora ha detto: “Nun te magni gnente?”
“Ma alla preospedalizzazione avevate detto una settimana di degenza e poi una settimana a casa con lo spurgo”.
“Chi le ha detto una cosa simile? Lei domani esce senza spurgo, punto”. “Ma io mi sono organizzato per stare qui sette giorni come mi avevate detto”. “Non è un problema mio!”, ha detto ed è uscito seguito dal codazzo di medici.
Ora io ho ancora un padre ancora attivo e una discreta rete amicale per cui ho risolto rapidamente con una telefonata ma, non dico un senza tetto che sarebbe finito direttamente sulla strada a fare la sua convalescenza, uno di fuori Roma, un siciliano, come il mio vicino di letto, avrebbe subito disagi molto pesanti, come per esempio trovare una camera di albergo in altissima stagione in attesa del treno per il ritorno.
Gli OSS sono gli operatori socio sanitari, quelli che dovrebbero pulirti, aiutarti a mangiare, insomma fare quel lavoro che prima facevano gli infermieri, ma sono anche le figure che saltano per prime quando si operano tagli alla sanità: in fondo l’operazione è andata bene, no? Cosa vuoi che sia un po’ di disagio a fronte della vita?
Il fatto è che dopo gli OSS hanno tagliato gli infermieri e i medici.
E a breve taglieranno i chirurghi. Che fa un po’ ridere visto che i chirurghi sono quelli che tagliano.
Per questo mi piacerebbe che quel che resta delle pochissime energie politiche e popolari rimaste votate al bene pubblico si concentrassero sulla sanità, anzi sul diritto alla salute (altro che sul diritto alla buona morte: il diritto alla vita dignitosa!) e dunque sul diritto alla casa e a un lavoro adeguato compatibile con l’ambiente, e non dico tanto per chi ha la mia età che il grosso della vita l’ha fatto, ma per i vostri figli.
È bene che lo sappia chi pensa di cavarsela con il privato che non basterà un’assicurazione sanitaria integrativa a garantire il diritto alla salute dei vostri pargoli.
Tranne alcuni casi particolari che, seppure iper garantiti, si atteggiano a militanti de sinistra (con casa sul Canal Grande, in via della Spiga o sul lago di Como),
la moltitudine sarà schiacciata dalla privatizzazione della sanità.
Ma il grosso di noi e dei vostri figli no, noi saremo sommersi pur essendo noi tanti mentre i tagliatori (e i privilegiati) sono pochi.