di Massimo Lavena – Si è spento il braciere dei XVI Giochi Paralimpici di Tokyo 2020, e dalla ruota del lotto della capitale del Sol Levante è uscito lui, il 69, il numero perfetto: lo Ying e lo Yang, il Bianco e il Nero, gli amanti focosi, i primi due multipli del 3, un palindromo rovesciato, il numero specchiato, la Vita e la Morte, la Gioia e il Dolore, la voglia di realizzare i propri sogni, e potremmo continuare all’infinito.
69 è bello, completo, elegante, rotondo e slanciato al contempo: è come il lancio del peso e del giavellotto fusi insieme, è come un braccio al cielo e una ruota che gira veloce; 69 è l’acqua tagliata furente da un corpo ferito che spacca un record mondiale; 69 è un tandem lanciato veloce con gli occhi al buio ma con un cuore potente.

69 è una emozione gioiosa e contagiosa che ha trascinato milioni di italiani a fare la notte e la mattina, magari negli ultimi scampoli di vacanze per tifare gli atleti paralimpici: e se a vincere o andare a medaglia era uno dei 115 azzurri che hanno vissuto queste ultime due settimane di sport esagerato, potente, veloce, elegante, combattuto, beh, allora la fatica del tifo era pienamente ripagata.
69 sono state le medaglie italiane: 14 ori, 29 argenti, 26 bronzi.
I quarti, quinti e sesti posti sono un numero primo a centomila cifre, e a parte qualche caso sono successi veri, per il miglioramento dell’atleta, per l’esordio convincente ai primi Giochi Paralimpici. Difficile stilare un elenco, tante sono stante le esplosive emozioni che la kermesse giapponese ha prodotto.
Da Bebe Vio a Assunta Legnante, da Ambra Sabatini a Ndianga Dieng, da Luca Mazzone a Stefano Raimondi, tuffandoci con le sirene e i tritoni del nuoto azzurro che hanno regalato 39 delle 69 medaglie conquistate, è difficile dire chi abbia emozionato di più.
Tutti hanno onorato Tokyo, la città che li ha ospitati, ospitati, come i loro avversari: alcuni monumentali come Jessica Long, Omara Durand Elias, Ihar Boki, Maksym Krypak, come gli atleti della rappresentativa dei rifugiati o Zakia Kudhadadi, e Hossain Rasouli, afghani fuggiti dal loro Paese e dalla repressione talebana per poter partecipare alle Paralimpiadi e non rischiare di essere uccisi: soprattutto Zakia Kudhadadi, perché donna. Un esempio in una edizione dei Giochi Paralimpici che ha regalato una vera valanga al femminile.

Nel meraviglioso sogno raccontato durante la cerimonia conclusiva, Tokyo si prepara a diventare “La città dove brillano le differenze”.
Perché, se ce ne fosse bisogno, i Giochi Paralimpici hanno raccontato con semplicità che il mondo è fatto tutto di differenze: ma come più volte ha ripetuto la bravissima Arianna Secondini, inviata della Rai, che con grandissima professionalità e competenza ha fatto le interviste a bordo vasca nella piscina del Tokyo Aquatics Center: è giunto il tempo di non parlare più neanche di “persone con disabilità” ma di “persone con altre abilità”.
Questa è la realtà del 15% della popolazione mondiale. Per una volta facciamo i complimenti alla Rai, a tutti i giornalisti ed ai commentatori, che hanno svolto con egregia baldanza e grandissimo amore per il giornalismo un vero servizio pubblico: mai pietismo, mai inutili disquisizioni sulla fortuna di esser vivi o su quanto gli atleti paralimpici siano delle superdonne e dei superuomini.
Invece si è sempre parlato di sport, di quelle “altre abilità” che noi normali non abbiamo.

Appunto atleti con le loro specialità, le loro fatiche, i loro successi, la loro rabbia per una sconfitta causata da una caduta o dalla pioggia, da una folata di vento improvvisa che sposta una freccia, da un cordino che tiene l’atleta “legato” al compagno guida, che nel rettilineo si sgancia e la gara è persa.
Niente di diverso dal fallimento in una finale olimpica per una falsa partenza o da un rigore sbagliato in una finale europea. Così come la gioia è esplosiva e dirompente senza nessuna differenza di colore, possanza fisica, intelletto e capacità visive.

Sono tante le differenze che corrono tra il mondo olimpico ed il mondo paralimpico: tra queste una delle più chiassose è quella del valore economico delle vittorie nelle due diverse manifestazioni.
In Italia una medaglia d’oro olimpica viene premiata con 180mila euro dal CONI, il vincitore d’oro paralimpico viene premiato dal Comitato Italiano Paralimpico con 75mila euro; l’argento olimpico fa incassare 90mila euro, quello paralimpico 40mila; il bronzo olimpico incassa dal CONI 60mila euro, mentre il paralimpico riceve dal CIP 25mila euro. Tante le variabili che portano a questa evidente incongruenza, per non dir ingiustizia.

Se è vero che gli atleti sono uguali nel loro impegno, è vero anche, purtroppo, che le casse dei due Comitati hanno casseforti di proporzioni differenti: gli sponsor ancora guardano poco il mondo paralimpico, salvo nel caso di grandi campioni come Jessica Long o Bebe Vio, ma che sono ancora l’eccezione che conferma la regola; l’attenzione dei mezzi di comunicazione è limitatissima per quanto riguarda gli sport paralimpici, e solo in occasione dei Giochi e delle manifestazioni mondiali o continentali la copertura mediatica batte qualche colpo in più.
Meno comunicazione, meno conoscenza, meno pubblico, meno pubblicità, meno sponsor, meno soldi nelle casse. Il cammino è ancora lungo, l’erosione del muro della disparità è lento, ma costante, ed è aiutato anche dal numero degli sportivi paralimpici, che dai Giochi di Londra 2012 a oggi, in Italia, è schizzato da l’1,5% al 10% dei praticanti totali di sport nel Paese.

Ci sono anche altre differenze: un atleta paralimpico difficilmente “è lì per partecipare”. L’atleta paralimpico vuole vincere, vuol vincere sempre, migliorarsi, andare sempre più avanti, è l’incarnazione del “citius, altius, fortius” del Barone Pierre De Coubertin.
E se qualcuno prima dei Giochi di Tokyo si poneva il problema delle forze che iniziano a mancare, che forse a 50 anni si può anche smettere, che è tempo di lasciar spazio alle nuove leve…col cavolo!
Se lo guadagnino quello spazio, se la conquistino quella corsia, che fra tre anni ci vediamo a Parigi per i XVII Giochi Paralimpici estivi. E siccome non ci facciamo mancare niente, già si scaldano le scioline per i XIII Giochi Paralimpici Invernali di Pechino, dal 4 al 13 marzo 2022.
E ora, in ordine sparso, un bel ripasso dei nostri fantastici campioni paralimpici di Tokyo 2020: