di Roberta Caiffa – Era il 26 aprile 1986 ed avevo 17 anni. Ricordo benissimo il nome di quella cittadina nell’allora Unione sovietica: Chernobyl. E ricordo perfettamente dov’ero e cosa facevo nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della centrale nucleare. È un po’ come la data dell’11 settembre 2001, quando le torri gemelle di New York furono colpite da 2 aerei. Dov’ero me lo ricordo.
Quello di cui forse non siamo pienamente consapevoli nella differenza tra le due tragedie è che, mentre per le Torri gemelle i danni in termini di perdite di vite umane sono stati immediatamente percepiti, nel disastro di Chernobyl, oltre alle tragiche perdite di vite umane in prossimità dell’evento, i danni sono rimasti ‘nell’aria’ o ‘sul terreno’ e non si sa – purtroppo – fino a quando potranno continuare a ‘colpire’. Anche a distanza di 35 anni.
È in questo contesto che in Italia, come nel resto del mondo, dal disastro di Chernobyl, migliaia di famiglie, ogni anno, hanno accolto uno o più bambini provenienti dalle regioni limitrofe alla centrale nucleare, nell’ambito dei viaggi di risanamento terapeutico.
L’Italia fin da subito è sempre stata in prima linea nell’aiuto alla parte più debole della popolazione colpita da questa enorme tragedia umana, ambientale e sociale: i bambini.
Oltre 500mila bambini – soprattutto bielorussi – nel tempo, hanno potuto beneficiare di questi soggiorni. E ricordiamo che sul solo suolo bielorusso sono cadute almeno il 70% delle scorie radioattive.
Non ci soffermiamo sulle note proprietà terapeutiche del mare e del sole italiano, oltre che del cibo. Ma quello che nel tempo si è instaurato tra le famiglie italiane e le bielorusse è qualcosa di magico. Perché tanti bambini di 30 anni fa, oggi hanno altri bimbi, che hanno iniziato a viaggiare verso l’Italia anche loro. I legami spesso sono stati mantenuti nel tempo. E la famiglia italiana diventa la seconda famiglia per tanti bambini; a volte l’unica.
Ma a causa della pandemia da Covid-19 i progetti sono bloccati e migliaia di bambini da un anno e mezzo non possono tornare in Italia.

C’è la storia di Arsenij, 9 anni. “Il primo incontro…tanti dubbi… gli piaceremo? Piangerà? Vorrà dormire da solo o con noi? Come faremo con la lingua? Quante domande, quanti pensieri – racconta Paola, la “mama” italiana che lo accoglie in Calabria -. Svaniti non appena da lontano un biondino con gli occhiali, minuto minuto, si intrufola tra la folla di altri bimbi e sorpassa tutti per fare il pagliaccetto in prima fila…”.
La mamma di cuore riconosce il suo bambino tra mille: “A distanza di tre anni confermo che non sarebbe potuto essere nessun altro se non lui – dice Paola -. Il cuore batte all’impazzata, gli occhi diventano lucidi quando ci abbraccia e tutti i dubbi dei giorni precedenti svaniscono. Inizia la nostra quotidianità di sorrisi e facce buffe, di una lingua italiana tutta sua, di capricci e marachelle. Amore, gioia, felicità, allegria…emozioni e sensazioni che Arseni ci ha regalato fin dal nostro primo incontro in aeroporto; e poi abbracci, sorrisi ma anche ansie, capricci e monellerie. Se prima sembrava una eternità il lasso di tempo tra una estate ed un Natale prima di poterci riabbracciare, dopo quasi 15 mesi non bastano le parole per descrivere il nostro stato d’animo”.

Poi c’è Kristina, 12 anni. “Con la mia famiglia, quasi per caso ci siamo trovati ad accogliere – ricorda “mama” Bianca, di Roma -. Eravamo in parrocchia quando un responsabile dell’associazione Puer ha chiesto se ci fossero famiglie disponibili per i progetti. Una breve riunione in famiglia e, in una domenica di febbraio 2018 decidemmo per il sì. Da quel giorno in famiglia non saremmo più stati in quattro, ma in cinque. Perché Kristina è entrata immediatamente a far parte della nostra famiglia; per noi è stato come se ci fosse sempre stata”.
Ed infine Liza, 10 anni, la bimba che dal Natale 2018 ospito e che, purtroppo, non torna dal gennaio 2020. Quando arriva a casa un bambino di Chernobyl la tua vita non è più la stessa. Provi gioia per i suoi sorrisi, ma sei anche consapevole che quel bimbo vive in territori dove sono tuttora presenti nemici invisibili. Ecco perché ora, come tante altre famiglie italiane, cerco di fare il possibile per farli tornare.

Liza ama il ‘maroznaie alla fragola e cioccolato’, ossia il gelato italiano. Ma prima di questo ama fare i tuffi in piscina. Non so come mai, ma ha iniziato per sbaglio a chiamarli ‘gufi-tuffi’, e tali sono rimasti. Nelle tre volte che abbiamo ospitato la piccola (due volte durante le vacanze di Natale ed una in estate), Liza si è ambientata subito nella nuova famiglia. Sempre sorridente e di buonumore. La prima volta, in pieno inverno, ha trascorso dieci giorni su venti a casa con febbre e mal di gola, curate con tante arance, miele e coccole.
Invece l’estate italiana del 2019 (l’ultima, purtroppo) è trascorsa senza nemmeno un piccolo raffreddore. Il mare e il sole l’hanno aiutata ad alzare le difese immunitarie. Infatti anche il Natale successivo è stata bene. Liza ha frequentato un corso di acquaticità in piscina, la sua amata piscina.
Ha bisogno, come tanti altri bambini che vivono lì, di cure che vengono dal nostro mare, dal sole e dagli affetti delle famiglie italiane.
Invece ora è tutto bloccato, causa Covid. Da gennaio 2020. Un anno e mezzo. Troppo tempo per bambini che hanno bisogno di soggiorni terapeutici per i danni provocati dall’esplosione della centrale.
Spero davvero che il Ministero delle politiche sociali decida di riaprire i progetti per questa estate.
La cosa assurda è che la Bielorussia è disponibile alla riapertura. Lo scorso 1° aprile, con Mario Baldi, Ambasciatore italiano a Minsk , l’ Associazione Puer, che si occupa dei soggiorni terapeutici da 25 anni, è stata invitata al Dipartimento bielorusso per gli Aiuti umanitari. “È chiara la loro volontà di riaprire i progetti già da giugno”, ha detto Sergio De Cicco, presidente della Puer Onlus.
Anche la Commissione Ue concorda sulla possibilità, per l’Italia, di riprendere i soggiorni terapeutici. Un protocollo sanitario validato dal Comitato tecnico scientifico e voli Covid-free potrebbero aiutare la ripresa dei progetti. Da ricordare che la maggior parte dei bambini coinvolti vivono in case famiglia ed istituti.
“Ci auguriamo – conclude De Cicco – che il governo italiano percepisca il problema del blocco, ormai da troppo tempo, di questi importanti progetti terapeutici di prevenzione”.
