dalla nostra corrispondente a Beirut – Mustafà mi guarda con i suoi occhi da bambolina. Sono occhi serenamente inconsapevoli di chi non ricorda di aver fatto un volo dal quinto piano del suo palazzo, con atterraggio di testa. La sua spina dorsale è stata compromessa in modo irreparabile, come pure le funzioni cerebrali. Se ne sta lì, seduto sul tappeto simil-persiano, mentre la mamma dalla faccia triste gli cinge con le braccia la vita. A pochi centimetri di distanza Rakim, due anni, si nasconde dietro la tenda per sfuggire al mio sguardo di sconosciuta. Siamo a Beirut, quartiere popolare di Dekwaneh. Qui negli ultimi anni si è concentrata una forte percentuale di siriani e iracheni sfuggiti alle guerre civili e alle persecuzioni dell’Isis.
La casa di Mustafà si trova al quinto piano di uno dei tanti palazzi malandati, dall’intonaco scalcinato e i gradini delle scale spaccati. Sporcizia e avanzi di cantieri edili decorano con metodo ogni pianerottolo, andando a sostituire le piante ornamentali delle case borghesi. La casa di Mustafà è una camera. Lurida con un piccolo angolo cottura. È arredata da due divani sfondati e un tappeto dove dormono, mangiano e vivono da due anni quattro persone.
“Per questo schifo sono costretto a pagare 450 dollari al mese” racconta Abdullah, curdo di Kobane, il padre di Mustafà. “Vivo a Beirut da due anni, insieme a mia moglie e i miei figli. Siamo fuggiti da Kobane, per salvarci dalla guerra siriana. Nella mia città lavoravo come sarto; avevo un buono stipendio, una bella casa e una macchina. Ora è andato tutto perduto. La nostra casa è saltata in aria per un razzo, me lo ha detto mio fratello Hair, prima che morisse ucciso dai miliziani dell’Isis nella difesa della nostra Kobane”.
Non riesce a trattenere le lacrime, e alle sue si aggiungono d’istinto quelle della moglie che accompagneranno, come una triste litania, la durata del nostro incontro. In alto sopra la trave della porta è appesa, incorniciata, una loro fotografia di quando la guerra era lontana. Belli, orientali, sorridenti. Come se non volessero dimenticare la felicità, allo stesso modo in cui gli anziani lasciano appese ai muri di casa le loro foto di gioventù, e le guardano con gli occhi pieni di una nostalgia felice.
Immagini che richiamano al loro cuore una versione migliore di sé stessi a dispetto della pelle e del corpo, umanità deperibili alle intemperie del Tempo. Lo sguardo di Mustafà, nella foto, brillava di una furbizia bambinesca, andata perduta. “Il quinto mese che eravamo in questa casa, Mustafà è caduto dal balcone” continua Abdullah. “Qui a Dekwaneh i parapetti sono bassi, si è sporto, ed è volato per 5 piani atterrando di testa. E’ un miracolo che non sia morto. Purtroppo, la sua spina dorsale è stata compromessa in modo irreparabile; anche la sua testa. Non ragiona bene, non sembra più mio figlio”.
Guardando Mustafà sembra che nel volo abbia perso se stesso; come se la sua anima, sorpresa dall’improvvisa caduta, si fosse staccata dal corpo continuando a vivere una vita parallela nella stessa casa scalcinata. “Con i vicini di casa ho un debito di 5mila dollari per le cure mediche di Mustafà” racconta il padre, “e non ho idea di come farò a saldarlo … lavoro dalle 9 di mattina fino a mezzanotte consegnando pizze a domicilio. Quindici ore di lavoro al giorno per 500 dollari al mese che bastano a malapena a pagare l’affitto. Siamo prigionieri di una povertà indotta dalla guerra. Come se, della guerra, fossimo noi i responsabili. Come se la povertà fosse una pena da scontare”.
La famiglia di Mustafà sognava l’Europa; un pensiero felice che si è schiantato a terra insieme al giovane corpo del bambino. Ora i curdi di Kobane si trovano nel limbo della Terra dei Cedri; un Paese pieno di contraddizioni, che tuttavia non nega ospitalità e asilo a più di un milione e duecento siriani rifugiatisi in Libano per sfuggire alla guerra civile, e alle persecuzioni degli uomini neri dell’Isis.
Nazioni come il Libano e la Giordania, che a sua volta accoglie centinaia di migliaia di profughi iracheni, hanno molto da insegnare ai liberal democratici Paesi europei: chiudere le frontiere nazionali a chi chiede aiuto, non può essere la soluzione al dramma delle migrazioni. Queste ultime sono l’effetto dal volto umano di politiche scellerate: lanciare sciocche campagne mediatiche contro i migranti, in particolare contro quelli di fede musulmana, equivale a mettere la testa sotto la sabbia.
Scambiare questi ultimi per orde islamiche che, oltre a “rubarci il lavoro” portano il “terrorismo a casa nostra” secondo gli slogan più gettonati, è dannoso e controproducente. Se il sonno della ragione genera mostri, bisogna svegliarci presto: a breve potremmo trovarci in un incubo dai contorni più che reali.