di Maria Ilaria De Bonis – «Dobbiamo ancora lottare, siamo noi che possiamo cambiare il mondo! I nostri nonni e bisnonni hanno già dato; noi giovani, africani ed europei, dobbiamo unirci per cambiare le cose. Arrivati qui in Europa siamo solo all’inizio».
Quando invoca giustizia e umanità per i migranti e grida «apriamo i porti!», Ibrahima Lo, 20 anni, senegalese, sa esattamente di cosa parla.
Conosce ogni sfumatura della paura. E di quell’urgenza senza via di scampo che un bel giorno spinge i ragazzi africani a prendere il largo. Lui stesso l’ha fatto quattro anni fa e non lo rifarebbe mai più.
«Ho sofferto troppo – dice – e sono stato imbrogliato». Da chi?
«Dai passeur del deserto, che mi facevano salire sui pick up e poi mi chiedevano tanti soldi. Mi ha salvato solo la voglia di vivere».
Partito da Dakar quando aveva 16 anni, transitato per le prigioni libiche e poi per il mar Mediterraneo, è arrivato in Italia e adesso Ibra (come lo chiamano gli amici), è uno studente universitario che vive sulla nave della Ong Mediterranea saving humans, attraccata a Venezia.
Fa l’attivista. Ed è anche un educatore. Ha scritto un libro: ‘Pane e acqua, dal Senegal all’Italia passando per la Libia”. Continua a battersi per tutti quelli che sono ancora a metà del viaggio.
«Voglio fare il giornalista, ma non uno di quelli che lavorano in tv, però, e che guadagnano tanti soldi – precisa – Un giornalista scomodo, che parla, che denuncia!».
Ibrahima ha una voce sottile da ragazzino ma una grandissima forza interiore.
Ne ha passate tante e racconta tutto con una lucidità impressionante. Non è uno che rimuove, lui.
«Vedevamo la Libia come il paradiso: “quando arriveremo in Libia potremo mangiare e fare una doccia”, dicevamo, “potremo bere l’acqua”. E invece una volta arrivati in Libia è iniziato l’inferno», ci racconta Ibra.
La Libia è un buco nero di aberrazione e crudeltà dove l’uomo ha perso del tutto il senso dell’umano.
La Libia, a sentire i racconti di questi ragazzi che ci sono stati, è ben oltre la ‘banalità del male’. E’ come un non luogo che alimenta amoralità e violenza.
«Ci chiedevano soldi e ci picchiavano – racconta – erano botte con i kalashnikov, lì uccidono gli esseri umani come fosse niente».
Nel tremendo ‘gioco dell’oca’ che è il viaggio migrante (da una parte c’è la salvezza in Europa, dall’altra la morte o il ritorno al punto di partenza) è impossibile il ripensamento.
Una volta che ci sei dentro devi arrivare fino in fondo. I ragazzi piangono e urlano, vorrebbero tornare a casa, e invece sono costretti a proseguire.
Questa condizione Ibra la spiega molto bene.
«Quando si ubriacavano i libici venivano nelle stanze e cominciavano a picchiarci. Io volevo tornare indietro, volevo tornare in Senegal perché non ce la facevo più. Non ero il solo: in tanti avremmo voluto tornare a casa ma non potevamo farlo. Mi tornò il mal di pancia, vomitavo tanto, spesso mi girava la testa».
Poi dopo tanta sofferenza, arriva il momento del mare. Si prende il gommone. E a quel punto la paura assale i migranti. Nessuno di loro vorrebbe salire su quelle imbarcazioni di gomma sgonfia.

«Era il 9 giugno 2017, non dimenticherò mai quel giorno. Arrivarono di notte – ricorda Ibra nel suo libro – I libici come sempre erano armati.
Dissero ‘tabur’, come il giorno precedente: ci mettemmo in fila, ci chiamarono per nome. Preparammo il gommone e infine lo alzammo e lo appoggiammo sull’acqua per poi salirci dentro. partimmo alle cinque del mattino».
Quasi sempre l’incidente in mare è la norma per chi viaggia in quelle condizioni. «Ad un certo punto cominciò ad entrare l’acqua, piano piano ma sempre di più – ricorda – Togliemmo i nostri vestiti per assorbire l’acqua che entrava. Mentre eravamo pieni di paura vedemmo un elicottero che si stava avvicinando a noi. Aveva una luce rossa che ci segnalava di andare avanti».
Finalmente una luce di speranza.

«Poco oltre vedemmo una grande nave che batteva due bandiere: europea e italiana. Penso che potesse essere una nave di un’associazione, di una Ong, come quelle che tuttora sono presenti nel Mediterraneo. Per soccorrerci arrivarono con dei piccoli canotti con a bordo dei salvagenti».
E’ così che Ibrahima si salvò dal naufragio e l’immagine di quella nave che arrivava a portare aiuto, non se n’è mai andata dai suoi occhi. Tanto che si è messo a cercarne un’altra.
Una volta arrivato in Italia e trovata una sistemazione provvisoria a Venezia, aiutato da diverse associazioni, dalla Chiesa cattolica e dagli attivisti, ha pensato di diventare lui stesso un soccorritore a bordo.
«Adesso vivo sulla Mediterranea, con diversi volontari. Al momento la nave è attraccata in porto, ancora non viaggia. E io sto qui in attesa di poter fare una missione di soccorso!
In questo periodo però sto anche andando nelle scuole, tengo conferenze on line, parlo con i ragazzi».
I suoi amici in Senegal continuano a partire. Nonostante tutto. «Posso metterli in guardia, ma di fronte alla fame non c’è ragione che tenga», spiega Ibra. Di fronte alla fame c’è solo un’opzione: provare l’impresa impossibile, con la speranza di resistere.
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