dalla nostra corrispondente ad Atene – Neos Kosmos, quartiere centrale di Atene a dieci minuti di metro da piazza Syntagma. Qui, dove ha sede un centro diocesano per la famiglia, si sono intrecciate le storie di Mikhail e di Potros, profughi siriani. Mikhail e Potros – sono nomi di fantasia per tutelarne l’identità – hanno età diverse, lavori diversi, città di origine diverse. Sono però accomunati dal filo rosso della guerra che dura da 4 anni e da una storia di fuga dal loro Paese simile a quella di tanti altri siriani; fuga che ha il denaro come minimo comune denominatore.
Mikhail e Potros pagano infatti i trafficanti per arrivare nella vicina Turchia; pagano al mercato nero nuovi documenti falsi e pagano altri trafficanti di anime per raggiungere le coste della Grecia, sineddoche sfortunata del concetto di Europa. Trenta, quaranta mila dollari a famiglia per una traversata in gommone di poche miglia marine, avente come approdo una delle tante isolette del mar Egeo prossime alla Turchia. Da lì, con il poco denaro ancora a disposizione, sperano di trovare pace nelle città nordeuropee di Svezia, Danimarca, Norvegia.
Mikhail e la sua famiglia arrivarono a Neos Kosmos nell’ottobre 2013. Con lui la moglie Marie Nour, e i suoi quattro figli; Christina, 15 anni, Sharifa, 13, Gabriel, 11, e Leo di soli 5 mesi. Non sapevano dove andare, loro, cristiani di Hassake in fuga dalla Siria in guerra.
Suor Dorotea che al tempo gestiva la struttura non aveva esitato un attimo ad accoglierli. Mikhail racconta che da giovane era calciatore della nazionale siriana; le foto del suo account facebook lo ritraggono in una sua immagine più giovane, inginocchiato accanto ad altri ragazzi che come lui indossano una divisa sportiva regolamentare, dal colore blu. Scorrendo i suoi album fotografici ci mostra alcune foto scattate dal suo cellulare di cristiani crocifissi poco lontano da Hassake; ci disse che quell’immagine fu la molla che lo spinse a fare il giorno stesso i bagagli e andarsene per sempre con la sua famiglia da una Siria che non riconosceva più.
Marie Nour, la moglie, dopo pochi mesi riuscì a partire dalla Grecia con Leo fra le braccia e nelle mani documenti falsi che riportavano l’improbabile identità di una sedicente Marlene Monroe, resa ancora più esotica da una tinta di capelli all’ultimo grido. Dopo poche ore lei e il suo piccolo si trovavano nel grande aeroporto di Stoccolma, terra promessa che per tanti migranti profuma di sicurezza e libertà. Mikhail e i suoi figli, rimasero invece in Grecia. Dicono i siriani che per partire da Atene basta comprare documenti falsi e corrompere a suon di mazzette le guardie aeroportuali greche; ma Mikhail non aveva soldi a sufficienza per pagare un viaggio per 6 persone. Hanno quindi aspettato per un anno e mezzo le pratiche per il ricongiungimento familiare e finalmente il 27 febbraio di quest’anno sono partiti, anche loro, per la Svezia.
Potros ha ventuno anni, ma ne dimostra almeno quindici di più. Era uno dei tanti studenti di Damasco che protestavano contro il regime di Bashar al-Assad. L’esercito lealista è entrato nella sua casa e gli ha ucciso padre e madre, davanti ai suoi occhi. Per due anni è stato prigioniero nel carcere della capitale, dove ha subito torture e abusi che si possono leggere fra le righe del suo sguardo che fugge. Non ci ha voluto raccontare come è riuscito ad evadere. A Neos Kosmos è restato sei mesi; anche lui ha comprato una nuova identità, ed è partito per l’Italia sotto falso nome di Leonardo, lui che in italiano a malapena sa dire “buonasera”. Infine ha raggiunto la Svizzera.
Le storie di Mikhail e Potros raccontano come la salvezza e la vita non siano dei diritti inalienabili, garantiti dalla protezione umanitaria sancita dalla convenzione di Ginevra, ma merci facilmente barattabili in nero col denaro. Se tanti sono i siriani che fuggono dalla guerra, troppi sono quelli che rimangono vincolati alla morte dalla colpa della povertà.