E poi ti trovi una notte di fine estate a non riuscire a capire più niente: il cuore batte forte, l’urlo è in gola, tremi, la poltrona sembra posseduta da un demone assiro, mentre calde scendono alcune lacrime. E una piccola ragazza davanti a te parrebbe voler spaccare il mondo, uscire dallo schermo televisivo per abbracciare tutti: e tu protendi le braccia verso l’aria perché quella ragazza è Bebe, Bebe Vio, Beatrice “Bebe” Vio, che ha appena piazzato la stoccata che regala all’Italia la medaglia di bronzo del fioretto femminile a squadre alle Paralimpiadi di Rio.

Bebe salta su quella carrozzina che a fatica è riuscita a contenerla. Non si vedono le gambe, non si vedono le braccia perché Bebe non le ha, ma sono lì le lacrime che ti dimostrano che non c’è pietismo ma gioia, allegria, sofferenza, vittoria. Bebe, come Assuntina Legnante progressivamente divenuta cieca, e da campionessa del getto del peso è rimasta campionessa anche dopo aver perso la vista.
O Alex Zanardi che ha lasciato le gambe su un circuito automobilistico 15 anni addietro ed oggi spacca il mondo sulla sua handbike.
Rio a larghe falcate è corsa verso gli ultimi giorni di gare e poi si volerà in 4 anni verso Tokyo a larghe bracciate e salti e assalti e palloni coi sonagli e carrozzine fotoniche e balletti di gioia sulle notte del sirtaki o della tarantella, perché le Paralimpiadi sono l’esaltazione della vita, sono la certezza che l‘essere umano può andare oltre quelle sofferenze che normalmente ci portano ad esclamare “poverino”.
Non c’è pietà ma rispetto, non c’è sofferenza ma sforzo, non c’è sconfitta ma stimolo a migliorarsi. La mitica Cecilia Camellini, nuotatrice pluricampionessa paralimpica a Pechino e Londra, a Rio ha conquistato una medaglia d’argento ed una serie di piazzamenti, che lei ha vissuto con la stessa gioia come se avesse vinto un’altra medaglia: fino ad affermare che le sensazioni provate durante questi Giochi Paralimpici sono state superiori e più appaganti delle altre esperienze nelle quali aveva ascoltato l’esecuzione dell’Inno di Mameli perché vincitrice della medaglia d’oro.
Nel mondo paralimpico, quella grande esperienza esclusiva della sportività olimpica che premia anche l’ultimo arrivato con l’applauso del pubblico, ma che non riesce a permeare tutto il mondo sportivo dei normodotati, raggiunge la normalità: per questi superhumans la cecità, la spina bifida, le amputazioni, le carrozzine, le paraplegie come le cerebrolesioni sono la normalità, ed il gesto sportivo non è espressione di straordinarietà ma prosecuzione della vita nella semplicità.
Tutto ciò con la condizione dell’essere svantaggiato agli occhi della grande massa perché l’atleta paralimpico molto spesso è storpio, sformato, disarmonico, angosciante nel pensiero comune violentato nella sua monotonia della perfezione dall’offesa della malattia.
Ma davanti a tutti gli dei del mondo non ci sono parole per raccontare la meraviglia dello spettacolo di vita e gioia scaturito dalla piscina, dal campo di tennis come dalla pedana della scherma: spettacolo di normalità vincente, così tanto vincente che il 90% e più di chi si definisce normodotato e “sano” non riuscirebbe a fare un decimo che uno qualsiasi di questi atleti riesce a fare.
La storia del movimento Paralimpico scorre veloce dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale, ed in Italia, 1960, in collegamento con i Giochi Olimpici di Roma si tennero le prime Paralimpiadi.
Son passati 56 anni, ed oggi quel movimento che un tempo era visto come una nicchia per ridare speranza è una cascata di esperienze che illuminano le vite di milioni di praticanti, che trovano nello sport la sublimazione della propria esistenza.
E non stupisca se grazie ad atleti come Oscar Pistorius, troppo presto dimenticato per i tragici fatti della sua vita privata, tanti giovani hanno trovato il coraggio di mettersi le protesi ed hanno poi cominciato a correre.
E per una volta diciamolo un grazie alla vecchia e smandrappata Rai-Radiotelevisione italiana, che ha trattato le Paralimpiadi di Rio quasi con la stessa copertura e spiegamento di mezzi dei precedenti Giochi Olimpici carioca: arrivando a sostituirsi alla televisione locale broadcaster ufficiale dei Giochi per la copertura internazionale di tanti eventi snobbati.
Non deve restare un unicum, perché da questi normalissimi superumani si può solo e soltanto imparare, ma non a vincere o a fare record, imparare a vivere.