(di Filippo Bocci) – Nadia Terranova è giovane, eppure la sua notorietà nel panorama letterario italiano è ormai un fatto, e non solo perché Addio Fantasmi è entrato nella cinquina finalista del Premio Strega lo scorso luglio.
I suoi libri, romanzi, racconti, albi illustrati e favole per i bambini, avevano già ottenuto numerosi riconoscimenti e i suoi articoli sono di frequente sui più importanti quotidiani e periodici nazionali.
Nata a Messina, vive a Roma ma è così profondamente legata ai luoghi delle sue origini, fondamentali nelle ambientazioni delle sue opere, da essere stata appellata su Twitter, dove ha migliaia di followers, con il titolo scherzosamente bonario di massima “strettologa” contemporanea.

La incontro nel freddo inverno romano, immersi nei vapori di una libreria/caffetteria del quartiere Pigneto, e in qualche modo sento – ma forse è solo una speranza – di essere subito anch’io dentro una delle sue storie, e che la chiacchierata si fa anch’essa piano piano, naturalmente, racconto.
“Mia nonna è stata la prima persona che mi ha narrato una storia, prima che imparassi a leggere, e lo faceva continuamente, è lei che mi ha trasmesso questa voglia di raccontare”.
“Poteva trattarsi di Colapesce – la cui leggenda riecheggia, fra le altre, in Omero è stato qui – o dei Musicanti di Brema, una favola a cui mia nonna era molto affezionata e che ora è una delle mie preferite. Ma anche le preghiere in dialetto, lei che era molto credente, le metteva in forma di racconto”.
“È da lì, e anche dalle vicende delle storie dei santi, che ho concepito la scrittura letteraria come trasformazione: c’è sempre un personaggio che ha un grossissimo problema, per risolverlo combatte una battaglia totale e ne esce vittorioso”.
“Pur avendo studiato tanti anni filosofia – prosegue – e avendo esplorato il mondo dal punto di vista teorico, estetico, teoretico, non è il ‘perché’ delle cose che mi interessa. Forse nutro una sfiducia verso i legami di causa-effetto e penso che a cercarli si finisca con l’impazzire. Il dolore, le malattie, le insensatezze del mondo, la morte, accadono ma non c’è un effettivo perché”.
“Quello che conta veramente è il ‘come’, in che modo, attraverso la scrittura, trasformare costruttivamente un’esperienza.”
Dunque l’infanzia – o Un’idea di infanzia dal titolo dell’ultimo lavoro, una raccolta di venti saggi critici per Italo Svevo editore – è forse il momento fondativo dell’espressione artistica di Nadia Terranova che nell’introduzione del libro, un dialogo con il poeta Giovanni Nucci, dice:
“La letteratura per ragazzi è come il primo amore: dà alla maggior parte dei lettori e degli scrittori l’impronta originale del sentimento, indica la strada,
ma poi diventa invisibile. Se chiedi a uno scrittore quali siano i libri della vita quasi sempre dimenticherà di citare L’isola del tesoro o Piccole donne, vantandosi di letture più recenti: in realtà è grazie a quei capisaldi che è nato, per molti di noi, l’amore per la letteratura.”
Al centro di tutto c’è la parola ‘immaginazione’: “Io – prosegue la scrittrice messinese – la preferisco a ‘fantasia’, o al fantasticare che può sembrare un’evasione, perché l’immaginazione è una forza che ti consente di materializzare cose incredibili in un mondo possibile, facendo da ponte tra la ragione, che da sola è sterile, e l’analisi psicologica, utilissima ma non indispensabile, perché da sola non spiega tutto”.
“Riempire le cose di immaginazione può creare una dimensione di sogno dove ci possiamo incontrare tutti di più”.
Così nascono i protagonisti, anzi le protagoniste dei suoi romanzi: “Io alla fine racconto solo di donne. Se è vero che gli uomini determinano le storie con la loro assenza o il loro abbandono, sono le donne che esistono e resistono.
Sia ne’ Gli anni al contrario, sia in Addio fantasmi il punto di vista è quello della figlia, severo, perfino feroce, perché Mara e Ida, il cui sguardo rispettivo di figlie nei due romanzi è quello della realtà, non potranno che idealizzare i padri scomparsi, nell’occasione perduta del rimprovero, e rivolgere la loro rabbia verso le figure femminili, verso la madre ma soprattutto verso sé stesse, rimaste sul campo a presidiare”.
Dunque, mentre la scrittrice racconta, l’intellettuale scava, si analizza con generosità e abbondanza e analizza i rapporti interpersonali, così come i vincoli di parentela, con nettezza di giudizio: “Non sempre è necessario ribadire le proprie ragioni a prescindere, anche quando non porta a nulla”.
“Tra avere ragione per forza e essere gentili, che non significa essere sottomessi, è sempre preferibile essere gentili”.
Quando poi parla dei legami familiari è difficile capire se l’intonazione della sua voce sia più amara o più disincantata: “Io credo – dice – che il problema della famiglia sia nell’asfissia dei ruoli spesso molteplici che ognuno ha, e ancor più nello sguardo di sorveglianza sui ruoli: ‘Tu sei mio padre e devi fare mio padre e se non lo fai mi stai tradendo e abbandonando’. E però
un essere umano è qualcosa di più di un ruolo o di una somma di ruoli.
Anche qui l’immaginazione ci potrebbe venire in aiuto nel pensare e visualizzare le persone più vicine a noi a tutto tondo, non solo in famiglia. Chi sono nel loro mondo, fuori di casa, quando sono al lavoro?”
E l’incanto dell’immaginazione vale naturalmente non solo per lo scrittore ma anche per il lettore: “Chi legge ha un po’ uno sguardo strabico che alterna la coscienza critica all’abbandonarsi al piacere delle pagine”.
“È come stare al cinema, un libro funziona se si ha un’avventura, purché credibile, con un personaggio; se riesce a portarti in un territorio sconosciuto, senza riferimenti”.
Del resto esiste un continuo rapporto di scambio tra il creatore dell’opera e il suo fruitore: “Se io dovessi scrivere per me non scriverei una riga. Fino a vent’anni ho scritto diari, sfoghi personali che però non sono letteratura”.
“Io scrivo esclusivamente perché penso che da qualche parte c’è un unico lettore, un occhio nella stanza in cui lavoro, che ogni tanto chiudo, perché non voglio che mi guardi mentre mi lascio andare scrivendo, però ogni tanto lo apro, e so che è lì, e se quest’occhio non ce l’ho, io non scrivo”.
“Non riesco ad essere autentica se non ho qualcuno che mi legge.”
E, nel tempo di una tisana, mi rendo conto che Nadia Terranova è un fiume in piena, ha parlato tantissimo, anzi no, ha raccontato per tutto il tempo, attraverso la lettura mediata dei suoi occhi, quelli di Mara: “Sono la mia valigia, la mia infanzia senza tempo, la certezza che me la caverò perché me la sono già cavata – sono semplicemente tutto ciò che mi serve per continuare a raccontare”.
A me non resta che “la narrazione della narrazione” e, volendo audacemente parafrasare, potrei chiosare: Roma, Pigneto, gennaio 2020, Omero forse non è mai esistito, però di sicuro è stato anche qui…
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