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Home B.I.N. - Bellezza Interna Netta

Addio fantasmi, il nuovo romanzo di Nadia Terranova: la tragica ossessione della perdita

di Filippo Bocci
15 Novembre 2018
in B.I.N. - Bellezza Interna Netta, Primo Piano
Tempo di Lettura: 5 mins read
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(di Filippo Bocci) – Chi non avesse ancora letto Addio fantasmi di Nadia Terranova, edito da Einaudi, corra veloce a perdersi fra le righe o le onde, nel liquido magma della sua scrittura. Libri così belli vanno tenuti sul comodino.

Vi diciamo subito che le pagine di questo romanzo sono una lunga, violenta, spietata requisitoria della protagonista contro la sua immobile condizione di figlia, mentre il resto del mondo, felice a dispetto, è andato avanti con i suoi abitanti.

Tanti altri da sé che si ostinano a procedere senza di lei rimasta bloccata, senza essere cresciuta, alle 6.16 di un mattino in cui il padre fermò la sveglia e, ormai depresso da tempo, decise di scomparire.

Ida Laquidara aveva tredici anni, ora ne ha trentasei e si sente in colpa – “una macchia scarlatta” – e incolpa tutto e tutti, divorata da questa assenza. Ha smesso da allora di vivere il presente e viaggia costantemente nella memoria, al confine fra il reale e l’onirico.

A vent’anni è fuggita a Roma dalla Sicilia, scrive per la radio, si è sposata ma vive un matrimonio tiepido, “sulla soglia di un desiderio inafferrabile e perduto”. Pure dovrà tornare a Messina, fare i conti con il passato, dare spazio al dolore, riabitare il luogo della privazione, ancora alla ricerca disperata del genitore che non ha saputo trattenere. Il tetto è danneggiato, la casa imbarca acqua, sua madre ha bisogno di lei.

E sull’acqua, il vero grande demone del romanzo, sul traghetto Villa San Giovanni – Messina, comincia il doloroso viaggio di Ida, novella Elettra, che non sa darsi pace della perdita del padre Agamennone, mentre la madre, una possessiva Clitemnestra – “Non so neppure se hai sofferto davvero”, le dirà Ida – pur segnata dagli eventi, si ostina a proporle e a sperare per lei una possibile ipotesi di futuro.

Il viaggio porta dritto dritto all’inferno, il traghetto si chiama Caronte, e a bruciare fra le ossessioni è Ida, mentre gli apparentemente naturali elementi vitali sono capovolti, a testa in giù verso il buio.

“Chi non sa niente della Sicilia pensa che la luce porti il buonumore e va diffondendo l’equivoco dell’allegria, ma i siciliani la luce la scansano e la subiscono come l’insonnia e la malattia”.

Sembra di riascoltare gli echi distruttivi della Terra desolata di Eliot dove “Aprile è il mese più crudele”:

“Con l’istinto feroce dei bambini sentivo che la primavera era la stagione della morte e della terra marcescente, sotto la celebrazione dei fiori”.

Fino ad arrivare alle estreme conseguenze della messa in discussione dei vincoli e degli istinti più innati:

“Sarebbe meglio se i bambini fossero allevati non da due genitori ma dalla comunità intera, se appartenessero a un paese, a un villaggio, non alla biologia. Così forse non esisterebbe più questo terribile senso di proprietà”.

E ancora e di più: “Non voglio figli perché ho paura che muoiano, che scompaiano… Non ho figli perché non voglio che un essere umano si generi dentro di me e mi abiti a suo piacere”.

Ida Laquidara, “figlia dell’assenza di Sebastiano Laquidara”, racconta e contemporaneamente spiega, e accusa, e giudica, e condanna, preda della mente che sa il dolore ma non lo può capire, non ce la fa a contenerlo, e, assediata ma lucida, si ostina a voler ricreare di continuo il rito dell’abbandono:

“Esistono solo le ossessioni. Le usiamo per tenere la crepa aperta e ci raccontiamo che la memoria è importante, che noi soltanto ne siamo i guardiani. Teniamo la ferita larga perché ci stiano dentro i nostri mali, i nostri timori, stiamo attenti che sia profonda abbastanza da contenere il nostro dolore, guai a lasciarlo vagare. Esistono solo le ossessioni, e intanto il tempo le ha rese più vere di noi”.

Come nella tragedia greca sarà necessario un sacrificio, una morte altra, finalmente un corpo apotropaico dell’assenza, perché Ida possa liberarsi di Elettra o di Ifigenia e del ruolo di figlie che rappresentano, perché il traghetto del ritorno possa “issare le vele” con venti favorevoli. Eppure non abbiamo la certezza che sia un’effettiva liberazione, e per dove, e se verso un futuro degno di questo nome:

“Casa, ripeto fra me, e mi giro verso il continente e Roma che mi aspetta; casa, mi ripeto, ora con lo sguardo all’isola e a Messina che mi dice addio. La mia casa non è nessuna delle due, sta in mezzo a due mari e a due terre. La mia casa è qui, adesso”.

Assillante questo viaggio di Ida, questo continuo brulichio della mente che Nadia Terranova riesce a piegare a materia letteraria in una scrittura penetrante, febbrile, in un linguaggio crudo fino alla violenza. La prosa è ricca di figure retoriche, anafore, allitterazioni, chiasmi, fino spesso a scivolare naturalmente, e forse senza intenzione, nel verso:

“Quando pioveva o nevischiava,/ lo Stretto si colmava di marosi/ e la città ci accoglieva” è l’incipit di una frase dove evidenti e suggestivi si generano, quasi di vita propria, un novenario, un endecasillabo e un ottonario. E ancora: “Mia madre ride sdraiata,/ voltata su un fianco verso di me,/ scarmigliata e felice come in foto,/ ai suoi piedi intuisco aggrovigliata/ la coperta color ocra”.

Qui diremmo che quasi cantano, i tre endecasillabi incorniciati dai due ottonari. Oppure, ma tanti altri sarebbero gli esempi, “Le parole sincere di mia madre/ mi colpivano più delle sue accuse”, due endecasillabi allungati, infiniti come il dolore.

Dove apparentemente non c’è trama ma solo macerazione, il lettore che avrà il coraggio di sostenere fino in fondo Ida, troverà fissate nella sua memoria scene potenti e vedrà, come evocate, le dramatis personae necessarie a una vera e propria tragedia con delitto e catarsi.

Nadia Terranova

Nadia Terranova ha scritto un libro che irrita lo stomaco, come quando mangiamo le cose che ci piacciono ma che poi ci fanno male, e che tuttavia sono le più buone.

La scrittrice messinese ci trascina giù dove non vorremmo andare e toglie quintali di polvere da sotto il tappeto. E poi toglie anche il tappeto.

Rimanere soli con Ida significa essere ostaggi un po’ complici del suo cosciente, claustrofobico cortocircuito mentale. Ogni parola è necessaria e spalanca mondi immaginifici.

Compressa fino all’inverosimile da echi e rimandi, la scrittura pretende soste continue. Correte a leggere, ma ogni tanto lasciate che il libro decanti sul comodino.

Dovrete stringere un patto con l’inquietudine, che Ida Laquidara vi costringerà a rispettare.

 

Foto di copertina: fotomontaggio di Elene Usdin

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Filippo Bocci

Filippo Bocci

Laurea in Lettere, curiosissimo di tutto ma esperto di niente, cialtrone il giusto. Coltivo particolari feticci come la bacchetta di Leonard Bernstein, gli occhi di Bette Davis, il sorriso di Jack Lemmon. Scrivo su b-hop perché “le parole sono importanti (by Michele Apicella/Nanni Moretti). E se le usi per parlare di Bellezza fanno bene”.

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