dalla nostra corrispondente a Beirut – Una giungla di cemento mal congegnato. Questa è Beirut, dove edifici post-atomici mangiati dalla polvere e dal sole, spuntano come eruzioni cutanee in una terra problematica. Muovendosi per la città il degrado è maggiore di quello che si immagina; la “Parigi d’Oriente”, così era nota Beirut nel mondo arabo, ora è più simile a una problematica banlieu della capitale francese.
A centinaia le giganti gru da cantiere, uccelli mostruosi, che dominano la città come una riserva naturale di mattoni. Il traffico è impressionante ed endemico; tante automobili di grossa cilindrata, mercedes, jaguar, range rover si muovono a passo d’uomo lasciandosi dietro strani manifesti pubblicitari sbiaditi dallo smog; immagini di coppie occidentali dei primi anni 2000, ben vestite e sorridenti, si mescolano a poster di volti arabi su sfondo nero, corredati da copiose scritte orientali. Ragazzi dai vestiti sporchi di polvere e terra, donne velate che tengono per mano bambini scapigliati, camminano davanti a negozi di lusso dalle scritte dorate.
Beirut è una grande città contraddittoria, chiusa da due guerre; a sud Hezbollah, impegnato in una lotta decennale con la vicina Israele, a nord l’Isis che avanza dalla vicinissima Siria. Ed è una terra sospesa fra le dimensioni del “non più”, di un benessere diffuso che si allontana a passi veloci, e del “non ancora”, di una guerra che si attende e che, per fortuna, fa fatica ad attecchire. L’atmosfera di sospensione permea ogni angolo del Paese, fino ad arrivare nel profondo sud nella valle della Beqaa, zona calda di frontiera a una manciata di chilometri dalla Terra Santa e dalla Siria.
Mi trovo nel villaggio di Libbaya, nella ragione della Beqaa, a un’ora di macchina da Beirut. Tanti i posti di blocco presieduti da militari infreddoliti dalla neve, che controllano con sospetto i documenti, facendo domande in un inglese stentato. A Libbaya, incontro Mustafà, un amico di vecchia data. È il suo compleanno, sa che mi trovo in Libano e mi ha invitato a festeggiarlo con la sua famiglia.

Mustafà ha 29 anni ed è soldato nell’esercito libanese. Avrebbe voluto fare il meccanico, la sua vera passione sono le auto, ma il padre Hassam lo considera uno scansafatiche e lo ha obbligato a seguire la carriera marziale. “Lo vedi? Adesso la mia baby sta sola soletta tutto il giorno!” dice indicando la sua bmw parcheggiata sotto casa. Mustafà mi presenta la sua famiglia, bellissima. Il padre Hassam e la madre Fatima mi salutano con i tre baci di rito alla araba; seguono poi i suoi tre fratelli maggiori e le due sorelle che mi accolgono con sorrisi bianchi come lampi in un cielo crepuscolare. Prima del pranzo di compleanno si va a fare un giro nel villaggio in compagnia del mio amico e della sorella Samar.
La zona è presieduta dalle milizie sciite di Hezbollah, e il volto apparentemente pacioso del leader Nasrallah sorride benigno dalla gigantografia che pende dalle pareti della grande moschea sciita. Al suo fianco, i poster di due martiri locali, ragazzi giovani caduti nelle recenti guerre contro Israele e contro gli estremisti sunniti dello Stato islamico. Domando ai due fratelli come facciano a vivere in questa costante atmosfera di tensione, nella consapevolezza che il Paese è oggetto delle mire espansionistiche dell’Isis, che preme lungo il vicino confine siriano; e che da un momento all’altro potrebbe scoppiare una lotta armata con Gerusalemme.
“La guerra è la nostra condizione naturale, ci siamo cresciuti” mi racconta la bella Samar. “Nella nostra famiglia prima eravamo in dieci, come le dita delle mani. Ora siamo rimasti in otto, due nostre sorelle sono morte sotto i bombardamenti israeliani del 2006. Lo so che può sembrare incredibile, ma nella vita ci si abitua a tutto. Nel nostro villaggio si vive, si lavora, si esce la sera. La vedi questa strada? È la via principale del paese, dove ogni estate le ragazze in ghingheri sfilano sotto gli occhi vigili delle madri, per accalappiare quello che diventerà il loro futuro marito. E il mio bel fratellone Mustafà è riuscito a sfuggire a tutte loro!”, dice ridendo Samar.
Arriviamo in una bella prateria poco fuori da Libbaya, Mustafà mi indica le catene dell’Antilibano, che come un incantesimo galleggiano fra le nuvole, proteggendo il confine con la Siria. Come se se fossero sospese. A guardarle mi viene in mente la formula chimica della sospensione, metafora che si sposa bene con l’attuale condizione del Paese dei cedri; dispersi in questa liquida situazione politica che sfugge, ai libanesi non rimane che fermarsi, come in una pausa di riflessione in cui ritrovare se stessi, nell’attesa di sedimentare emozioni, idee, azioni. Ed è un fermarsi che sa di resistenza, letteralmente di re-sistere, di lasciarsi indietro, respingendo, le forze della guerra che vorrebbero strapparli alla vita.
Ci raggiunge Hassam. Il pranzo è pronto. È arrivato il momento di fare festa.