di Walther Gusai – Quante volte, camminando per strada, ci soffermiamo su alcuni particolari di una persona? Ciò accade anche e soprattutto se le persone che stiamo osservando presentano malattie, malformazioni, o abbiano semplicemente un comportamento sui generis. Tuttavia quanto effettivamente ci mettiamo nei loro panni cercando di comprendere contro cosa stanno lottando?
Forse poche, forse molte, ma sicuramente alcune di loro possono stupirci: il modo in cui affrontano i propri drammi può lasciarci letteralmente di stucco.
Ne è un ottimo esempio Camilla Palazzi, una ragazza di ventitré anni affetta da psoriasi, che ha accettato di raccontare a B-hop la sua esperienza.
La psoriasi, dal greco “psoriasis” (letteralmente: “condizione di prurito”), è una malattia infiammatoria cronica della pelle, non contagiosa e di comune riscontro. In poche parole, la pelle si stratifica rapidamente e si ispessisce nelle zone interessate dalle lesioni conferendo un aspetto squamoso bianco-argenteo.
“Ho scoperto di avere la psoriasi all’età di nove anni, quando improvvisamente tutto il mio corpo si ricoprì di placche. Quello successivo alla diagnosi lo ricordo come un periodo molto difficile: venivo sottoposta a innumerevoli visite, mi somministravano diverse creme e terapie, ma nessuna sembrava essere davvero efficace. Oltre al fastidio fisico, questo tipo di malattia mi provocava un continuo stato di sconforto, nervosismo e imbarazzo.
Avevo voglia di chiudermi in me stessa e tenere per me il mio segreto.
Credo fosse un atteggiamento di autodifesa: avevo paura che gli altri, vedendo la mia strana pelle, potessero pensare che io fossi contagiosa e quindi preferivo nascondermi.
Questo, ovviamente, comportava un forte senso di solitudine, soprattutto quando mi trovavo con bambini della mia età. Ecco perché rimasi veramente estasiata quando scoprii l’esistenza di un blog gestito da una ragazza inglese con la psoriasi, la quale pubblicava ogni giorno dei post che esprimevano tutti i possibili disagi a cui noi “psoriasici” eravamo sottoposti: da quelli più scontati (“It’s so damn itchy!”) a quelli più intimi, che solo una persona con la malattia poteva conoscere (“I hate it when I scratch my eyebrow on something and flakes are left behind”)”.
Per quanto tempo hai avuto tutto il corpo ricoperto di placche?
“Per circa un anno, corrispondente alla fine delle scuole elementari. Tuttavia, sebbene dal punto di vista fisico quello sia stato sicuramente il periodo peggiore (pruriti costanti, pelle secca che si spaccava, stanchezza dovuta alle varie terapie ecc.), dal punto di vista psicologico il peggio è arrivato dopo. Infatti, nonostante grazie alle terapie la psoriasi si fosse ridotta solo ad alcune aree del corpo (perlopiù ginocchia, gomiti e viso),
entrando nella pubertà avevo cominciato a dare molta più importanza al giudizio degli altri
e in particolare a quello dei miei nuovi compagni di classe. Avrei voluto omologarmi a loro, e non sentirmi diversa per via della mia situazione dermatologica. Mi sentivo costantemente “sporca”, tra la pelle perennemente unta di crema e le pellicine che ricoprivano tutti i miei vestiti. Neanche mi guardavo più allo specchio.
In che punto della tua vita possiamo individuare una svolta?
“Probabilmente tra i quattordici e i quindici anni, quando ho cominciato la fototerapia, un trattamento basato sull’utilizzo di radiazioni luminose. Già dopo poche sedute la mia pelle ha avuto un netto miglioramento. Questo ha fatto sì che io superassi il primo impatto traumatico con la psoriasi e cominciassi una seconda fase di ‘convivenza’. Era un continuo di alti e bassi, di momenti in cui pensavo di aver superato il mio imbarazzo con gli altri e giornate in cui, invece, la comparsa di una nuova placca mi ributtava giù.
La mia fortuna più grande è stata la mia famiglia, sempre pronta all’ascolto e accogliente
e in grado di farmi vivere la psoriasi non solo come una patologia da sconfiggere, ma anche come un “gioco” da affrontare in maniera originale e creativa, come quando insieme a mia madre ci inventammo tutti gli acrostici possibili con la parola “psoriasi”.
Qual è il ricordo più potente che hai della tua esperienza con la psoriasi?
“Quasi certamente un piccolo scambio che ebbi con il mio cuginetto Damiano, che ai tempi non aveva neanche quattro anni. Era il giorno di Pasqua e a un certo punto, lui venne da me e mi disse: ‘Lo sai che sono molto contento di avere te come cugina? Così posso dire ai miei amici di avere una cugina balena!’ Damiano faceva riferimento alle chiazze di ‘spermaceti’ presenti sul corpo dei cetacei, che lui aveva ricondotto alle macchie che avevo sul corpo. Questo forse è stato il primo momento in cui ho pensato alla psoriasi non come a un nemico, ma come a un qualcosa che addirittura poteva rendere felice qualcuno, in questo caso il mio cuginetto.
L’entusiasmo di Damiano fu tale da farmi pensare che forse, fosse anche solo per vedere quel sorriso così coinvolgente, valeva la pena avere la psoriasi”.
È in quel momento che hai cominciato a cambiare il tuo approccio con la psoriasi?
In parte sì, ma non solo. Con gli anni ho preso sempre più consapevolezza di me stessa e degli altri, ho capito che spesso, laddove per me una nuova placca poteva rappresentare una tragedia, gli altri neanche l’avrebbero notata. E non solo, ho appreso che alcuni tratti del mio carattere di cui adesso vado molto fiera, come l’empatia, probabilmente si sono sviluppati anche grazie alla psoriasi.
Questa storia, dunque, si presenta come un crescendo di emozioni, conquiste e consapevolezze, e soprattutto come un esempio di quanto il cambiamento sia presente nelle nostre vite nelle forme più disparate: non solo quello fisico (dovuto alla malattia e quindi alle varie mutazioni della pelle), ma anche e soprattutto il mutamento del proprio punto di vista.
Camilla racconta infatti che nel corso della sua esperienza ha raggiunto un livello di consapevolezza tale da farle
cambiare completamente il punto di vista sulla sua malattia: non più un nemico da combattere, bensì come un “compagno di vita”
che le ha permesso di crescere ed imparare a mettersi realmente nei panni di qualcun altro.
Oggi, non sono più visibili macchie sul corpo di Camilla e ciò grazie alla somministrazione mensile, iniziata nel 2015, di un farmaco biologico.
“Sin da quando ero piccola, i miei medici me ne avevano parlato, ma essendo un farmaco molto potente, ho dovuto aspettare fino al compimento dei miei diciotto anni”.
Cosa ha comportato per te l’inizio di questo nuovo trattamento?
“Non è esagerato dire che ha completamente rivoluzionato il mio punto di vista sul mondo. In un solo mese, infatti, il farmaco ha totalmente ripulito la mia pelle, eliminando in poche settimane tutte quelle placche che le varie creme e terapie precedenti non erano riuscite a guarire in oltre otto anni. Questo ha comportato non tanto un nuovo approccio con la psoriasi, che già negli anni precedenti avevo acquisito, ma proprio un nuovo approccio alla vita.
Ho imparato letteralmente sulla mia pelle due lezioni preziose: che non bisogna
mai dare niente per scontato e che da ogni esperienza, anche la più brutta, può nascere qualcosa di positivo”.
E se un giorno il farmaco smettesse di funzionare? Come pensi che reagiresti?
“Non ho una risposta certa a questa domanda. Forse mi spaventerei, forse scoprirei che una parte di me ancora oggi teme la psoriasi. O forse avrei la conferma di quanto detto prima, ovvero che questa malattia per me ormai non è più una nemica, ma una grande risorsa. Ma di una cosa sono certa: affronterei sicuramente la situazione con molti più strumenti rispetto a quando ho cominciato questa ‘avventura’, e soprattutto con la consapevolezza che, da qualche parte,
c’è mio cugino che si sta vantando con i suoi amici di avere una ‘cugina balena’”.

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