di Giovanna Tranfo* – Nel giorno in cui una donna è stata eletta vice presidente degli Stati Uniti, l’Università Sapienza ha scelto per la prima volta in 700 anni una donna come rettore; io, all’età di 61 anni, ho conseguito l’abilitazione a professore ordinario in Medicina del Lavoro.
Che c’è di strano? E’ che la mia storia non faceva presagire niente di simile. Dieci anni fa non pensavo neanche di chiederlo, questo riconoscimento. Pensavo di aver scelto un’altra strada, quella della donna che fa un lavoro che le piace abbastanza, che le consente di occuparsi dei figli, della casa, e va bene così.
Certo, all’inizio non era così. Dopo la Laurea in Chimica pensavo che mi sarebbe piaciuto lavorare all’università, fare la ricercatrice.

Così ho cominciato a frequentare, gratis ovviamente, il laboratorio della professoressa M.D; dopo un mese mi disse che però dovevo trovarmi una raccomandazione, una conoscenza importante, per avere una borsa di studio o un contratto, perché lei non poteva offrirmi nulla. Sono scappata.
Ho però avuto una borsa di studio in un’azienda farmaceutica. Sono diventata davvero una ricercatrice e quello che mi stupiva ogni mese è che mi pagavano per fare quello che all’università facevo gratis.
Dopo quattro anni mi hanno offerto di lavorare in una multinazionale. Si parlava in inglese, mi pagavano il doppio, viaggiavo in business class. Fantastico. Però avevo 33 anni, ero sposata da sette e quasi tutte le mie amiche erano in attesa, quindi ho iniziato anche io a pensarci. L’orologio biologico non poteva aspettare, la ricerca sì.
Quando finalmente ho scoperto di essere incinta ho capito subito che non era il momento migliore. L’industria farmaceutica italiana era in crisi e tutte le aziende erano in ristrutturazione, riduzione del personale, “ottimizzazione delle risorse”.
Morale della favola, dopo otto anni di luminosa carriera mi sono trovata incinta e disoccupata.
Non sapevo se disperarmi o essere felice di potermi dedicare completamente alla bambina che sarebbe nata. Ho cominciato a guardarmi intorno, mandare curricula, fare colloqui nascondendo il pancione.
“Complimenti per il suo curriculum ma abbiamo preferito una candidatura interna”. “Mi spiace ma in questo momento abbiamo sospeso il reclutamento”. “Avremmo bisogno della sua disponibilità per viaggiare in tutto il centro-sud”. Sono passata ai concorsi pubblici. Un posto da dirigente alla ASL (non ne sapevo niente, chissà cosa ho scritto nel compito). Un concorso per la polizia scientifica le cui prove attitudinali sono state svolte il giorno in cui è nata mia figlia. Un concorso per un Istituto di ricerca mai sentito nominare che è stato rinviato ogni due mesi per due anni, una caccia al tesoro a base di gazzette ufficiali, quando per leggerle bisognava andarle a comprare in edicola.
Il concorso l’ho vinto. Proprio quello. Mia figlia aveva due anni. Ma ero di nuovo una ricercatrice. Dopo due anni è nata la seconda figlia. Una maternità serena, con lo stipendio pagato. Mio marito viaggiava molto. Io portavo le bambine a scuola, andavo al lavoro, divoravo il raccordo anulare per essere a scuola alle quattro in punto, poi merenda, compiti, danza, pattinaggio, equitazione, eccetera eccetera, fino alla favola della buonanotte, come tutte le mamme. La ricerca andava a rilento, ma non avevo tempo di rammaricarmene.
Le bambine sono cresciute. E ho scoperto il piacere della creatività. Ogni progetto di ricerca è come un figlio, inizi a pensarci quando ancora non c’è, poi lo vedi nascere, crescere, prendere strade diverse da quelle che ti aspettavi e per questo ti piace ancora di più. Ogni pubblicazione è come una pagella, un diploma, un saggio di danza.
Così ho deciso di fare la domanda per l’Abilitazione Scientifica Nazionale, il riconoscimento necessario per poter insegnare all’Università. Il giorno in cui è stata pubblicata la graduatoria mi è arrivato un messaggio di congratulazioni da una collega ricercatrice, universitaria appunto. Sul momento non ho capito a cosa si riferisse, erano passati sei mesi da quando avevo inviato la domanda e non ci stavo affatto pensando.
Poi mi ha invasa una sensazione di euforia, di pienezza, come quella che provavo quando prendevo 30 ad un esame difficile. Una sensazione che non provavo da anni.
Essere riconosciuta per il proprio lavoro, senza dover dire grazie a nessuno.
Anche se ho cominciato tardi. Forse non sarò mai una professoressa universitaria. Forse sì. Kamala Harris ha detto che gli Stati Uniti sono un paese di possibilità. Forse anche l’Italia, o meglio ancora l’Europa? Lo spero tanto. Se non per me per le mie figlie, e per tutte le ragazze che hanno un progetto, a cui dedico questo scritto.
*Direttrice del Laboratorio Rischio Agenti Chimici dell’INAIL
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