(di Massimo Lavena) – Lo sguardo è immobile, come il corpo, fermo, le braccia basse, le palme delle mani aperte come se volessero afferrare l’aria, fermare il tempo in quell’istante che era magico finché è durato.
Un sospiro, una scrollata di spalle e la voglia impetuosa di fare pipì, risolta da una rapida minzione nell’angusto bagnetto della cabina. Di sfuggita lo specchio rilancia l’immagine di un volto tirato, confuso, come strappato da un sogno.

Sembrava un film di Ginger Rogers e Fred Astaire, mancava l’orchestra jazz, ma la melodia era il borbottio continuo che dalla sala macchine si diffonde attraverso i pannelli di ferro in ogni angolo della nave. Ora il viso si rasserenava ed anche lo specchio lo percepiva lasciandolo andare. Spenta la luce, chiusa la porticina del bagnetto, la serata riprende così come tutte le serate di tutti i viaggi in nave.
Il panino al prosciutto viene addentato, un sorso di acqua dalla bottiglia, il tutto guardando attraverso il finestrone della cabina. Tutto troppo semplice, tutto in fretta, a lui piacciono le cose tranquille, ponderate, alle quali magari far seguire la pazzia, il crescendo nel quale lasciarsi completamente andare.
Senza freni esce sempre qualche cosa di nuovo, di strano, anche di non ponderabile: ma ciò che resta è sempre un senso di pienezza, che in quel momento non appariva.
Nel mentre il panino con un degno etto di mortadella e del morbido caprino veniva addentato con la ferocia che gli potevano permettere i suoi denti ampiamente trattati da svariati dentisti: a cominciare da quel dottor Pissan che diceva che tanto i bambini sopportano il dolore e quindi a lui fece due devitalizzazioni senza anestesia.
Fu così che cominciò a capire che lui reggeva bene, molto bene, troppo bene, eccessivamente bene, catastroficamente bene il dolore.
Non capire il dolore ed avere una soglia di sopportazione troppo alta è una cosa bruttissima per il fisico, perché non senti le botte: se ti rompi un osso spesso provi un leggero fastidio, scopri dei lividi bestiali e solo dopo giorni ti ricordi di quello spigolo di quel cazzo di tavolo che ti si è conficcato nella coscia.
Oppure il dente ultracariato che i segnali te li darà pure ma tu non li senti e non gli dai peso: e poi una scheggia di pane ti riduce la corona in pezzi. Ma il dolore psichico quello hai voglia di reggerlo, alla fine scoppi. Kabooooom e ti ritrovi come una scarpa che ha pestato una cacca di un cane diarroico.
Mandato giù felicemente l’ultimo boccone di quell’erotico panino alla mortadella e caprino, giunge il momento di assaggiare i mandarini. Sbucciando gli agrumi si sprigiona un aroma pungente e dolce, intenso, di zagare in fiore, calde e odorose: riprende vigore nelle sue cellule sensoriali dell’olfatto il profumo rilasciato dalla pelle invitante che non aveva fatto in tempo a baciare.
Dove sarà la bella signora dai capelli neri legati e scarmigliati? Dove avrà portato il suo seno imperiale e protuberoso?
Dove avrà poggiato il suo shakespeariano sedere? Quale ambiente starà profumando?

E si chiedeva come mai avesse voluto vedere la cabina e come mai fosse andata via in maniera così repentina. I pensieri erano cullati dall’improvviso suono del beccheggio della nave, perché il mare si era un po’ ingrossato. Ed a ben pensare non era l’unica cosa ingrossata in quei momenti e non certamente solo la sua curiosità aveva ampliato le prospettive.
Quel ballo era stato interrotto troppo presto, ed il mare aveva risposto al loro desiderio che la nave facesse da culla tempestosa per unire i loro corpi in un abbraccio ballerino.
Non poteva, non doveva terminare così: quel ballo richiedeva tempi e movimenti più lunghi, armoniosi, i loro corpi dovevano stringersi sulle note della nave che tagliava le mare.
Girarsi verso la porta, aprirla ed uscire richiudendola con foga fu un attimo. Ancora il corridoio stretto, ancora le scale, e i corridoi, e poi la sala del bar, e poi il ponte pari e quello dispari, la sala gioco, il self service, e di nuovo il bar, ma la signora non c’era.
Ripercorrere la sequenza dei luoghi una, due tre volte senza risultati fu sconsolante e triste, e la rassegnazione si affacciava sulla camporella delle occasioni perdute. Lentamente un senso di smarrimento misto a delusione e sconforto lo stava pervadendo:
certe cose se le interrompi si scombinano, vanno in frantumi come i vetri rotti di uno specchio, che rilanciano squinternata – tutti – la stessa immagine, deformata.

In lui erano deformate le illusioni e le passioni, l’immagine di quella donna che lo aveva così colpito si sminuzzava in tanti piccoli frammenti taglienti: i suoi passi stanchi e pesanti, se li avesse fatti a piedi nudi, avrebbero causato tanti tagli alle piante dei piedi ed oltre al senso del dolore e della delusione avrebbe lasciato anche una scia porporina di sangue.
Un bravo segugio lo avrebbe stanato subito. Ma la solitudine non si vince con la fantasia e le occasioni perdute.
La porta della cabina, la chiave magnetica nella serratura, la maniglia che si abbassa: tentennava mentre la serratura scattava perché da dentro potente percepiva una vampata di quel profumo agrumato.
Sì, fermo, inspira forte, stringi gli occhi, apri, entra, chiudi la porta, e dalla penombra illuminata dalla luce del lampione del ponte sottostante vedi che si staglia controluce la signora.
Non dice nulla, è voltata verso il finestrone,
lui la vede, vede che il suo respiro è lento e profondo, vede i seni sollevarsi dentro la tuta e spingersi verso l’alto ad ogni respiro, vede le mani appoggiate al finestrone.
Resta fermo ad ammirarla e non si capacita dello spettacolo, mentre la nave continua nel suo beccheggio pronunciato. Gli schizzi ogni tanto cominciano anche a farsi vedere, lanciati in aria dalla chiglia della nave che non ferma il suo viaggio.
Come vorrebbe che la nave si fermasse, che loro restassero abbandonati così, cullati, scagliati forse l’uno verso l’altro.
La guarda nella penombra e vede la sua bellezza. Solo allora, per curiosità, le domanda come fosse entrata.
“Non ho ancora incontrato un marinaio che dica di no ad una donna che chiede aiuto, è una questione di rispetto e cavalleria, di servizio e galanteria. Ed io ho detto al commissario che avevo smarrito la chiave, ma nessuno ha controllato il mio biglietto, ad una signora in difficoltà si può solo offrire soccorso: nn bravo marinaio mi ha accompagnata con un passe-partout magnetizzato sul momento, ed io sono entrata. Speravo tanto che lei fosse ancora in cabina, ma è stata colpa mia, sono andata via e lei non poteva, non doveva aspettarmi. Ecco perché sono tornata, per aspettarla io”.
Il respiro lento e basso spingeva ritmicamente i seni verso l’alto ed in controluce i due respiri divennero uno solo mentre lui le porse la mano ed abbracciandola riprese a ballare piano, stringendola perché lei sentisse il suo calore, sentisse il suo desiderio che legava i pensieri di entrambi. Nella penombra le ammirava il volto, disegnava fiori sulle guance, le stringeva le mani e cercava gli occhi ed avvicinò le labbra alle labbra dischiuse.
Lungo, caldo, profondo, un bacio interminabile come lo sono le onde create dalla chiglia della nave. Un bacio solo ma di tutta la vita.