di Massimo Lavena – Il mare degli incontri sperati (1) – C’è un profumo nell’aria, molto agrumato, che lo colpisce e lo attrae, sia perché strana come fragranza in inverno, sia perché dona calore al bassoventre, con le immagini più varie che si creano nella fascia cerebrale dell’emozione.
Al bar i profumi svaniscono coperti da odori di caffé qualità robusta bruciato e liquori che si trovano quasi solo sulle navi. Uno sguardo incrociato e un senso di gioia lo pervade, quando vede sul bancone una mano di donna che appoggia un mazzo di chiavi con lo stemma delle Pleiadi. Una donna, una Subaru, doppia emozione.
Non è sua abitudine fare il mollicone e non lo fa neanche questa volta. Si gira, dice buonasera, sorride e va a sedersi.
Quasi non nota il viso della donna, tanto è concentrato e compreso sulla Subaru. Ma la donna lo guarda e lo segue con gli occhi, mentre sorseggia una improbabile brodaglia pomposamente chiamata espresso.

Lo raggiunge, è lei che vuole parlare, è lei che come lui prova noia nei viaggi solitari. Si siede e lo guarda. Allora lui la fissa
e si accorge che è una donna bella, probabilmente della sua stessa età, abbastanza elegante nella sua tuta nera,
con le scarpe da tennis bianche ed i capelli neri raccolti in una coda scarmigliata. Un filo di ombretto verde, un accenno di rosso vermiglio alle labbra che circondano la sua bocca grande, con denti bianchi curati.
La giacchetta della tuta ha la zip lievemente abbassata a mettere in evidenza un petto contenuto a malapena da una maglietta rossa con un profondo scollo a v. Un seno prominente e possente che non appariva ad una prima osservazione, forse perché la corporatura della donna è atletica, un seno sodo e lui lo immagina profumato e caldo.
Un sorriso di apprezzamento reciproco li accomuna, e lei lo guarda e gli spara secca un “ma non è la prima volta che ci incrociamo, non ricorda un mese fa, sempre al bar, io ero seduta lì nelle poltroncine, ci siamo sorrisi, è bello sorridere, non ci siamo parlati, ma spesso le parole non dicono niente, spesso quando si è soli in nave basta un sorriso, vero?” e la domanda lo fa riflettere, perché lui un mese prima in nave non c’era, e comunque non sapeva cosa rispondere e rispose con un banale “beh certo un sorriso è bello e aiuta”.
Lo sguardo che colse era quello di una persona che voleva parlare,
non sentire cazzate e lui proseguì “certo che le cabine non aiutano a sorridere, per questo io cerco di stare il più possibile sul ponte, vuole venire? C’è una aria bella, il maestrale ha spazzato l’umidità ed il cielo è terso”.
Alzarsi ed andare fu una sola cosa lei si mise in testa e lui si accorse che aveva un gran bel sedere, un sedere “To-To”, tonico e tondo, e lei si accorse che lui glielo guardava. E sorrideva.
Usciti sul ponte lei aprì la giacca della tuta e si mise nella posa della ragazza del Titanic: “Cos’è non lo ha visto il film? Mi sostenga su”.
Lui scoppia a ridere e la solleva ed entrambi si mettono a canticchiare la canzone di Celine Dion, cioè lui muggiva e lei rideva.
E ridevano rientrando nel bar e mentre lui la guardava lei si richiudeva la tuta dicendo “Ha la cabina”? “Sì, la vuole vedere? “Sì grazie, io non la prendo mai” “Guardi però che non ho la collezione di farfalle, al massimo un panino al prosciutto, uno con la mortadella e 5 panini”.
Era la cosa più normale, mettersi a chiacchierare, fare il Titanic e mostrare la propria cabina ad una sconosciuta per parlare di panini. Sì, normale, perfettamente normale, come vedere un bradipo correre i 110 metri ad ostacoli ai Giochi Olimpici di Roma ’60.

La strada è lunga, la cabina di prima in esclusiva è a poppa, il bar e la resciepsciòn sono più a prua. Si attraversano corridoi circondati da ambienti chiusi, che vengono aperti quando le navi si trasformano in carnai sudaticci ed olezzanti di oli abbronzanti e di piedi esposti nelle ciabatte più luride e diverse: c’è il negozio di chincaglieria sarda e con i giornaletti di gossip, c’è la profumeria e c’è la sala da gioco, ed immancabile la sala con le macchinette mangiasoldi e le slot machine rovinafamiglie, ma quella è sempre aperta.
C’è la sala computer miseramente vuota di computer e poi scale a destra, scale a sinistra, che portano verso i ponti superiori, che hanno le sale poltrone che d’estate vengono farcite di corpi isterici, le poltrone reclinabili e quelle non reclinabili, laide testimoni del vacuo peregrinare di viaggiatori che pensano di risparmiare o hanno fatto il biglietto troppo tardi.
E si sale ancora fino al ponte panoramico, quello sotto i fumaioli, con le gabbie per i cani, il pontile predisposto anche per ipotetici atterraggi di elicotteri per il soccorso di qualcuno molto grave: ma d’inverno tutto ciò è il regno degli spiriti e del buio, oltre che delle porte tagliafuoco chiuse per impedire anche la più piccola sbirciatina.
Il passo lento risuona nel silenzio del cammino quando si giunge davanti alla porta, e la chiave elettronica, al terzo tentativo, compie il suo dovere e la maniglia libera agli occhi la stanza del viaggiatore.
Da anni viaggia da solo, e da anni per un motivo incomprensibile paga per una cabina doppia esterna e gliene danno una quadrupla.
Meglio così, c’è più spazio. Da anni viaggia da solo e da anni si porta sempre appresso una boccetta di olio essenziale di lavanda che usa per deodorare l’ambiente, di suo tristerello e rattristante: l’aromaterapia aiuta ed infatti questo particolare colpisce l’ospite che all’apertura della porta, prima d’accendere le luci fioche, chiude gli occhi e inspira il fragrante profumo del fiore violetto d’Occitania.
Il sorriso, sempre il sorriso diviene parola soave, un sorriso ampio, beato, mentre un lieve mugolio di apprezzamento per la sorpresa odorosa accompagna i pochi passi che portano al centro della stanzetta nomata cabina.
Lui è fermo che osserva la scena e viene attratto da quel sorriso contagioso, e sorride a sua volta, lieve e sornione come un gatto quando comprende che le sue volontà stanno per essere esaudite.
“Non ero mai entrata in una cabina, lo sa? Viaggio sempre libera dalle mura, la sala del bar è un concentrato di umanità al cubo, e si capiscono molte cose”.
Lui ascoltava e pensava a quelle parole, “Perché c’è sempre da imparare, lo sa vero?”. “Certo, e negli anni ho imparato ad ascoltare ogni bisbiglio recondito, ogni sospiro, a studiare le movenze delle persone, il ruolo nel branco, la ..”
“Lei è una persona curiosa, curiosa perché scava dentro alle persone, e perché incuriosisce”. “Cosa l’ha incuriosita?” “Il suo sguardo di emozione calda quando mi ha visto al bar”.
Lo stupore la coglie alla risata spontanea. “Perché ride?” “Per la Subaru, mi ha emozionato la Subaru e poi la sua mano, una Subaru ed una donna, io amo la Subaru, una legacy poi, e mi piace ammirare le donne e poi mi son seduto e lei mi ha seguito ed abbiamo fatto il Titanic e il suo seno è meraviglioso e… oh mi scusi mi son lasciato andare, mi scusi”.
“Perché si scusa, mi ha guardato bene anche il sedere, e quello com’è?”
Lui non era facile a lasciarsi andare, e non capiva, non sapeva cosa dire. “La verità? Vuole proprio la verità?”. “Certo, gliel’ho chiesto io: com’è il mio sedere?”.
“Bello, potente, tondo ed amletico” “Ahahaahaha va bene bello, va bene potente, ma amletico?”.
I suoi occhi sorridono allegri e la sua bocca brilla per il riflesso della luce sui bianchi denti. “Sì amletico, perché mette in dubbio la propria forza di volontà e la propria morigeratezza, lei ha un gran bel incedere sinuoso e musicale, un 4/4 coi lombi a far da basso continuo, e il dubbio è se restare solo a guardarlo o baciarlo”.
La mano portata dal braccio teso verso il viso rilascia una carezza, una mano setosa e con la pelle morbida, le dita lunghe e forti, si sofferma sulle labbra, che trasmettono un piccolo bacio di ringraziamento.
Gli occhi si socchiudono mentre le mani si cercano e le due figure si avvicinano alla grande finestra della cabina.
C’è la luna, e la luce dei lampioni della nave entra prepotente nell’ambiente.
“Perché lei è sulla nave?”, “Stavo per chiederglielo anche io”, “Allora, perché non me lo chiede?”, “Perché lei è sulla nave?”, “Forse per il suo stesso motivo?”, “Io torno a casa”, “Anche io, ma sono già a casa mia”, “E dov’è casa sua?” “Anche in questa cabina.”, “Io ci trovo la libertà del mare, l’idea che ci si potrebbe buttare dalla nave e venire assaporati dalla spuma, mentre le eliche spingono lontano il bastimento non la affascina ?”, “Sarebbe un viaggio infinito, senza ritorno, invece a me piace ritornare, ripartire, muovermi, mi piace fissare e sentire addosso lo sguardo altrui, mi piace l’odore del sale e l’odore del grasso delle corde delle scialuppe, mi piace osservare come la gente guarda il mare, perché spesso non lo guarda mai, resta chiusa dentro la scatola d’acciaio, a farsi trapanare le poche cellule attive del cervello dalle fesserie della tivù, mentre conoscere, ascoltare, odorare, leccare, succhiare la vita sono attività eterne. “
Le mani erano ancora intrecciate senza pressione, mentre gli occhi si fissavano quasi a cercare una strada preferenziale per entrare dentro i pensieri per anticiparli.

“Ha un mio capello sulla spalla”. “Lasciamolo lì, si troverà a suo agio”. “E lei è a suo agio?” “Perché me lo chiede?”, “Perché io mi sento a mio agio”, “Bene, anche io lo sono”, “Posso dirle una cosa strana?” “Prego, la curiosità è un mio punto di forza”, “Ho pensato a come sarebbe bello se la nave adesso si mettesse a ballare, un rollio alternato al beccheggio, improvviso, forte, una scossa, un tremito violento, così saremmo costretti ad abbracciarci per sorreggerci”,
“Già, ma il mare è calmo, potremmo ballare”,
“Ma, non saprei…”, “Suvvia, venga, mi abbracci, appoggi la testa sulla spalla e cominciamo a ballare”, un passo, un altro passo, un altro passo ancora, e la musica c’era, era nell’aria, era il suono del vento di mare della Provenza che scuote gli steli della lavanda, era il fresco profumo agrumato che si mischiava all’odore della salsedine, era il dolce aroma della mortadella che proveniva dal panino, era l’odore della pelle che si impregnava di umori.
“Mi è piaciuto molto, grazie” e la dolce morsa si scioglie con facilità così come la porta della cabina si apre e si chiude altrettanto rapidamente lasciando solo la scia di bergamotto mista a mandarino con una nota di pompelmo.
(continua)