(di Massimo Lavena) – Ha perso il conto delle volte che ha fatto quella manovra: lieve sterzata a sinistra per incocciare il ponte levatoio d’acciaio con una angolo di 45° e poi lieve sterzata a destra per raddrizzare la macchina.
Così non si rischia di spaccare la coppa dell’olio o il semiasse. E poi, con l’accompagnamento musicale del fastidioso rumore tremolante delle ruote che girano sui punzoni del ponte del garage, è un amen trovarsi dentro la pancia del grande leviatano d’acciaio.
E c’è la solita rampa per andare al ponte superiore, che fa a memoria, ed ormai interpreta i gesti dei marinai addetti all’imbarco, anticipandoli e, forse, suggerendoglieli mentre già li ha fatti.
Viaggiare in nave quando sei bambino è uno spasso, ti senti come il pirata barbanera, padrone dei mari,
se poi non si soffre il mal di mare, il massimo che succede è vomitare per lo schifo del vomito altrui. Poi, man mano che si cresce i ricordi sono sempre meno piacevoli, conditi dal mitico odore delle navi traghetto, che è un misto di umido stantio e umanità bisunta con tracce di umori marci e polvere a gogò.

Ha sempre amato stare sul ponte, a prendere l’aria in faccia, a godere del vento salmastro che imperla la pelle e subito la secca.
Ma viaggiare in nave in inverno è una palla mortale, il tempo non passa mai, il buio ti toglie anche il piacere di restare fuori, ché il massimo che puoi fare è godere del bianco della schiuma prodotta dalla nave che taglia il mare.
In quei momenti il blu intenso mischiato alla spuma pastosa rivela il suo colore nonostante il buio che tutto racchiude.
Non è raro d’inverno perdersi per la noia totale, perché viaggiare da soli in nave è l’assoluto della noia: la sonnolenza è atavica, portarsi da leggere è dannoso perché amplifica quel desiderio di chiuder gli occhi che soddisfi rapidamente con due, tre pagine al massimo di un romanzo o la prima parte di un fumetto, portato apposta per ridestarsi e che invece accompagna a spalpebrare verso il buio morfeico.

Niente è poi peggio del mettersi a mangiare, perché la noia, la routine lenta e racchiusa in quei percorsi su moquette sozza, fanno ingurgitare carboidrati sotto forma di panini farciti come se non ci fosse un domani: pensare di recarsi al self-service significa ritrovarsi in un ambiente freddo, vuoto, al massimo con qualche camionista stanco e disilluso, abulico intorno alla sua bottiglia di birra e ad un piatto informe di rigatoni alla qualche cosa, magari con un arrosto di qualchecos’altro, tanto il sapore è indefinito ed indefinibile.
Ci sarebbe il cinema al costo di 5 euro, che propone solitamente film d’azione o similari, generalmente della stagione precedente, o qualche commediola di basso profilo.

Freno a mano tirato. Borsa con il necessario per la notte? Presa. Buste con i due panini (regolarmente prosciutto e mortadella) e i 5 mandarini, oltre alla bottiglia d’acqua? Prese.
E con calma si dirige verso l’accesso passeggeri dal ponte 4C. Nei pensieri c’è sempre quella piccola speranza di incontrare qualche persona conosciuta che non sia troppo rimbambita dal viaggio per scambiare qualche parola, o magari un incontro inaspettato, dove le parole divengon molte e la voglia di conoscere umanità nuova fa il resto.
Non è stato raro, in tutti questi anni, che venisse riconosciuto dal commissario di bordo o dai baristi, ed allora ci si scambia un saluto, ci si sente amici di nave, le parole fluiscono.
Ci son stati incontri strani negli anni: madri con figli piccoli da aiutare nel cambio dei pannolini, sacerdoti in partenza per la missione, professori sconvolti perché stanno a pensare a ciò che potrebbe succedere durante la gita di classe, ma anche delle
situazioni di complicità sensuale ed erotica con ragazze in viaggio da sole o in coppia,
con donne silenziose e apparentemente morigerate, ma spallate come lui ed in cerca di un minimo di solidarietà umana davanti al gorgo della noiosità navale, magari di semplice complicità.

La breve camminata nel ponte garage praticamente vuoto lo porta a fare la sua solita attività d’osservazione, perché alla fine le navi sono piene di cose, artifizi, meccanismi, nodi che meritano uno sguardo, scalfitture e acciai di varia natura. Sguardo che inopinatamente cade su una Subaru legacy station wagon nera con righe argentee delle modanature.
La testa si gira piano per seguire con attenzione i movimenti di quella dea su quattro ruote. Manovra perfetta, freno a mano tirato, fari spenti. Riprende fiato e si dirige verso l’ascensore, ma l’occhio resta attento per cogliere chi sia il possessore della Subaru, per un misto di invidia, desiderio e possibilità di scambiare prosaicamente qualche parola.
Ma il tempo passa ed il passo lo porta all’ascensore, che si apre e lo fagocita con scricchiolii e macchie di sporco ataviche.

Il rito della chiave alla “resciepsciòn”, dove aumenta vieppiù quel sottofondo musicale fatto di napoletanismi italianizzati e pronunce fantasiose, viene risolto in fretta e con uno distaccato “buon viaggio” ricevuto dal commissario di bordo.
Si dirige verso la cabina, stancamente, quasi trascinandosi verso un luogo che sa essere non accogliente. Il ricordo della Subaru e l’immagine non colta del suo conducente, dei suoi passeggeri, sfuma rapidamente all’avanzare attraverso i corridoi stretti con la moquette un tempo blu oltremare ed oggi grigia con ricordi ancestrali di un qualcosa che fu blu e molte chiazze di varia origine organica.
La cabina è come sempre con il finestrone, due lettini a castello, un bagno angolare, la moquette non intonsa per non dir lercia.
Lasciati i bagagli, versate un po’ di gocce di olio essenziale di lavanda sul pavimento del bagno e sulla moquette e preso il necessario, l’uscita dall’antro è repentina.
Sarà la prima e non l’ultima volta di una serie di avanti e indietro lungo i corridoi per non restare a trasformarsi in un paramecio nel salone del bar con le tivù che trasmettono solo canale 5, con le persone che si sforzano di ridere alle battute trite e ritrite di trasmissioni vecchie dopo il primo secondo.
(continua)