dalla nostra corrispondente ad Atene – In Grecia nel 2015, secondo gli ultimi dati dell’IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni), sono arrivati fino ad ora 374.300 migranti. Si imbarcano su gommoni improvvisati dalle coste turche per raggiungere le vicine isole di Lesbos, Kos, Chios, metonimie territoriali del concetto di Europa. Una volta approdati i profughi abbandonano sulle spiagge i giubbotti di salvataggio, le camere d’aria che fungono da salvagente e i gommoni bucati, realizzando un memoriale di plastica colorata della loro impresa verso la salvezza.
Dalle isole, le navi governative li traghettano fino al porto ateniese del Pireo e da quel momento in poi la loro salvezza diventa un fatto puramente personale. Le istituzioni greche infatti fanno ben poco, bloccate fra le spire della crisi e un’ignavia governativa, il minimo indispensabile per salvare la faccia; danno ai migranti un permesso di sei mesi, al termine del quale formalmente gli dicono di dover tornare al loro paese di origine. Ammonimento senza credibilità, che i disperati non rispettano, utilizzando quell’arco di tempo per arrivare in Svezia, Danimarca, Norvegia e Germania. I profughi che giungono in Grecia sono afghani, ma soprattutto siriani, in fuga da una guerra fratricida che dal 2011 insanguina le case, le strade, le piazze, la terra del loro Paese.

Gli afghani sono circa un migliaio. Occupano in maniera disordinata il perimetro limitato di piazza Victoria, vicinissima al cadente museo archeologico di Atene. Le tende da campeggio colorate sono posizionate “alla meno peggio” lungo il mattonato della piazza; tuttavia sono sempre troppo poche per le tante famiglie accampate sulla terra e da questa separate da tappeti rovinati, pudichi pezzi di stoffa necessari a mantenere una parvenza di dignità.
Le tende sono piene di ragazzi giovani che giocano a carte con il mazzo da poker. Hanno i piedi nudi, sporchi e dalle tende esce un intenso puzzo di sudore che impregna e rende pesante l’aria. Un odore più che naturale, giustificato dal fatto che a platìa Victoria mancano presidi igienico sanitari, docce, wc, bidoni per la nettezza urbana.
Qui la presenza afghana è cominciata lo scorso agosto; uomini e donne venuti da lontano si sono fermati per un passaparola. Altri connazionali, prima di loro avevano scelto la piazza come “loro” luogo di ritrovo. Un assembramento nato per caso. I profughi sono in massima parte afghani dell’etnia hazara. Hanno zigomi alti, tratti mongoli.
La piazza è abbandonata a se stessa, dove troneggia un vuoto palpabile pieno di menefreghismo istituzionale. L’assenza pesante della Croce Rossa e delle forze dell’ordine viene riempita dalla buona volontà di ong locali e abitanti del quartiere che organizzano cucine collettive, distribuiscono pasti caldi, vestiti, giochi per i più piccoli. La gente del vicinato durante il giorno arriva alla spicciolata; per lo più sono donne che vuotano le buste cariche di biscotti papadopoulos e coperte, visto che l’autunno è arrivato ed è freddo, anche ad Atene.
Il campo profughi di Elionas, altro quartiere a poche fermate di metro dal centro, ha ormai raggiunto la sua capienza massima. Realizzato dalla municipalità ateniese verso la metà di agosto, dà accoglienza a circa 680 persone: anche qui sono in massima parte afghani. Dimitris Georghiadis è uno dei responsabili; alto, sulla quarantina, parla italiano con una curiosa inflessione tipica di Bari, dove ha frequentato l’Università. “Il campo è aperto, non è un centro di detenzione. Qui gli accolti entrano ed escono liberamente, così come i membri di varie ong , associazioni locali e comunità religiose che vengono a Elionas per portare il loro supporto” racconta Dimitris. “In particolare si organizzano attività di gioco per i bambini, ma anche corsi di lingua, soprattutto inglese”.
Il campo d’accoglienza è ben ordinato, spazioso; i container sono distribuiti a una distanza vivibile l’uno dall’altro. Due ampi gazebo fungono da sala da pranzo comunitaria e da ludoteca per i bambini, che giocano su un tessuto verde evocativo di un prato. I bambini afghani sono bellissimi; alcuni, i pashtun, hanno tratti marcati tipicamente arabi con pelle scura, sopracciglia disegnate e occhi neri come il petrolio. Altri invece sono rivestiti da un’epidermide color neve che ben si intona con le iridi trasparenti come il ghiaccio, collocate al centro di uno sguardo a mandorla. Ridono, scherzano, si incitano a vicenda. Giocano a schiaccia sette con un’animatrice greca che non parla il farsi.
Ma le parole non servono, basta un pallone e la guerra è già lontana.