(dal Montenegro) – Elba non è solo il nome di un’isola che evoca atmosfere estive di riposo e acque cristalline. È anche l’acronimo del progetto “Emergenza Lavoro nei Balcani”, sostenuto da Caritas Italiana, che mira alla costruzione di imprese sociali a favore delle fasce più vulnerabili della popolazione locale di ben sette Paesi del Sud Est Europa (Albania, Bosnia Erzegovina, Grecia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia) a cui si è aggiunta la Bulgaria come osservatore. In un momento storico caratterizzato dalla crisi economica che, incominciata nel 2008, ancora continua a piagare la vecchia e malata Europa, l’economia sociale sembra essere una delle poche valide alternative ad un logorante sistema capitalista che sta finendo di spolpare un continente ridotto ormai all’osso.
Ma cosa si intende per impresa sociale? “Ha lo scopo di perseguire il bene comune e la coesione sociale attraverso la produzione di beni o servizi in grado di generare profitto. Un profitto che certamente deve essere utilizzato per raggiungere la sostenibilità sociale, economica e ambientale”, racconta a b-hop Marko Djelovic, direttore Caritas Montenegro, coinvolta in prima linea nel progetto Elba. “L’impresa sociale vuole infatti rispondere alle esigenze e desideri della comunità grazie a un approccio innovativo, favorendo la partecipazione, la promozione dell’inclusione lavorativa e sociale dei gruppi più vulnerabili”, precisa.
L’obiettivo di Elba è, quindi, notevole: combattere la disoccupazione nei rispettivi paesi del sud est Europa, proponendo modelli alternativi di impresa, basati sul sociale, aventi come target le minoranze più vulnerabili e al tempo stesso sostenendo percorsi di adesione all’Ue delle nazioni coinvolte, tramite esperienze di welfare e di economia sociale. Roba non da poco in Paesi mangiati da decenni di dittatura socialista e malgoverno diffuso, turbati da conflitti violenti che spesso li hanno contrapposti gli uni contro gli altri. Dalle guerre balcaniche fra Bosnia e Serbia e ancora fra quest’ultima e il Kosovo diventato indipendente dalla vicina repubblica serba nel 1999, fino alle dispute fra Repubblica di Macedonia (Fyrom) e Grecia sull’utilizzo “indebito” del nome Macedonia. Ed è bello vedere giovani, responsabili Caritas del progetto, riuniti intorno a uno stesso tavolo, lontani da storici odi nazionali; giovani che vogliono costruire ponti di cambiamento sociale, intessuti della stessa sostanza dei sogni. Italiani, montenegrini, bosniaci, serbi, kosovari, albanesi, macedoni e greci, tessere scintillanti di un mosaico che brilla di speranza, lontano dall’ombra nera delle guerre passate. Quello che un tempo era odio nazionalista, lascia ormai spazio a un sano, genuino campanilismo.”Greci e macedoni, non si capiscono proprio: quello da loro vuol dire sì, da noi vuol dire no. Siamo proprio agli antipodi!” racconta Dino, di Caritas Macedonia. Ride di gusto, insieme a Irini, la sua collega-amica di Caritas Grecia. Basta una risata e la guerra è già lontana, un colpo di spugna fatto di sorrisi che pulisce lo sporco della Storia.
Siamo a Bar, città costiera del Montenegro, dove è in corso il quinto workshop del progetto, altro petalo di una corolla di formazioni che abbraccia l’intero arco dei Balcani, arrivando fino in Italia: ad Albania, Serbia, Italia, Macedonia e Montenegro, sedi degli scorsi incontri, presto si aggiungeranno anche Bosnia e Kosovo ultimi petali di un fiore chiamato Elba. E’ autunno e il Montenegro, bellissimo, è attraversato da un caldo innaturale. La strada che collega Pogdorica, la capitale, a Bar, è di circa un’ora. Si snoda con disinvoltura lungo una varietà naturale che si ripete senza soluzione di continuità, dalle montagne, al lago, al fiume, alla pianura, al mare. Come se la natura per una strana isteria di nervi avesse voluto dare sfogo a tutta se stessa, esprimendo in poco un’intera enciclopedia di scienze. Come se il Montenegro fosse la wunderkammer di Dio, l’anticamera delle meraviglie. La strada taglia campi rivestiti di erba, ogni tanto intervallati da qualche casa cubica, rurale, dalle quali si affacciano uomini dalla triste faccia balcanica. L’asfalto, è solo la crosta superficiale di una ferita viva dalla quale sanguinano alberi rossi d’autunno.
Il Montenegro è una Repubblica giovane, anzi giovanissima. Sono passati solo nove anni dall’indipendenza ottenuta nel 2006 dalla Serbia. Allora, l’ancora attuale premier Milo Đukanović dichiarava che, entro il 2010, la neonata repubblica balcanica sarebbe stata libera dalla piaga della disoccupazione. Purtroppo le ottimistiche previsioni sconfessano una realtà fatta di stenti; anche se recenti statistiche indicano che attualmente i cittadini montenegrini vivono meglio rispetto al periodo precedente – grazie all’aumento dello stipendio medio da 282 a 478 euro – la situazione reale pare del tutto diversa. Sono sempre più le aziende che dichiarano fallimento, manca liquidità e gli abitanti delle zone settentrionali del Paese continuano ad emigrare all’estero.
La crisi economica va di pari passo a quella del sistema politico, non in grado di elaborare alcuna strategia di crescita economica e sviluppo sociale. Ecco perché in Montenegro, da anni, piccole imprese sociali lottano con fatica per riempire i vuoti lasciati dalla latitanza della politica; associazioni e ong come Panark e Help che a Pogdorica, la capitale, si occupano rispettivamente dell’inserimento lavorativo dei ragazzi affetti da disabilità, e di persone Rom, sono messe alle strette dalla crisi economica dilagante e dalla difficoltà ad accedere a fondi governativi per lo sviluppo. Da questo punto di vista, il progetto Elba costituisce un’isola felice all’interno di un mare sociale frammentato in arcipelaghi non comunicanti: grazie infatti al sostegno a imprese sociali già esistenti e allo scambio, fra queste ultime, delle “buone prassi” tramite la creazione di una rete sociale nei singoli Paesi, Elba mette in pratica il significato della parola società: dal latino socius, essere amici, compagni, alleati. Un’amicizia che abbraccia tutti i Balcani.