di Patrizia Caiffa – Qualche fettina di zenzero, un pò di semi di cardamomo e l’acqua bollente per il chai. L’incontro con Haru Kugo, una delle più talentuose ed esperte danzatrici di Bharata Natyam in Italia, inizia in cucina.
Dietro l’angolo c’è l’altare con gli incensi accesi e i fiori davanti alle più importanti divinità hindu: Ganesh, Shiva, Laksmi…
L’atmosfera indiana si sente nei profumi e nel sapore del famoso thè realizzato con l’aggiunta di spezie, latte e zucchero.
Si vede nei suoi occhi orientali finemente truccati con il kajal nero. Milanese di nascita, padre giapponese e mamma italiana, il suo destino dell’anima l’ha fatta fermare a metà strada tra il Giappone e l’Italia: l’India.
Una passione umana e artistica che è come una storia d’amore, “di gioia ma anche di sofferenza”.
In India si dice che ciò che è bello è vicino a Dio.
“Cercavo un mezzo per arrivare al divino – racconta a B-hop -.
Questo tipo di danza per me è devozione ed offerta di sé, è una forma di sublimazione e di elevazione spirituale.
Quello che mi affascina di più è il fatto di interpretare tutti i ruoli della storia: sei il vento, il paesaggio, un personaggio. Con lo sguardo, il gesto e il movimento del corpo fluisci e non ci sei più, ti dimentichi di te stessa”.
Gli spettatori occidentali, pur non comprendendo bene i significati e il contesto, rimangono affascinati dalla bravura e dalla grazia della danzatrice, e catturati profondamente nelle emozioni.

Caratteristico delle danze indiane è infatti l’uso degli occhi, assolutamente espressivo.
Tutto è iniziato una ventina d’anni fa, quando ai tempi del liceo frequentava le cucine di Avinash Ganesh, il più famoso cuoco indiano di Milano, morto lo scorso anno a 61 anni.
Lì ha imparato a fare bene il chai e a stordirsi con gli aromi della cucina indiana. Una sera Haru assiste ad uno spettacolo di danza Bharata Natyam: “
Sono rimasta senza parole, sconvolta. Sono corsa nel backstage a parlare con le danzatrici e ho chiesto: ‘Dove si impara questa cosa?”.
Senza sapere né come, né perché, si è ritrovata in un corso per principianti condotto da colei che sarebbe poi divenuta la sua prima insegnante, Monica Gallarate.
“Sono stati tre anni di assoluto caos, in cui non capivo assolutamente niente, c’erano dei testi in sanscrito, in tamil, spiegazioni su spiegazioni – ricorda -. Tutto quello che avevo imparato con la danza classica non mi è servito a nulla, ho dovuto impostare il corpo, la mente e lo sguardo su parametri completamente diversi”.
Impossibile descrivere l’armonia e la complessità simbolica della danza Bharata Natyam: millenni di anni fa si chiamava “Dasi attam“, danza dell’ancella, ed era eseguita dalle devadasi nei templi hindu.
Queste bellissime donne, considerate spose delle divinità, erano una sorta di canale tra il divino e gli spettatori.
Ogni singola danza è eseguita come se fosse un testo teatrale, ed è sempre preceduta da una preghiera e da una offerta rituale, la puja. La danzatrice con gli occhi e la gestualità rappresenta diversi personaggi di una storia.

Con le invasioni islamiche, poi l’impero britannico nel XIX secolo, la danza vive un periodo di profondo declino e di stigma sociale nei confronti delle danzatrici, assimilate alle prostitute.
Fino al famoso editto del 1920, il “Devadasi act”, che vieta la danza all’interno dei templi. E’ proprio in questo periodo che una donna illuminata di casta elevata, Rukmini Devi, la più famosa danzatrice indiana (1904-1986) decide con un gruppo di brahmini di ridare dignità a questa antica danza: vengono studiate le gestualità dai fregi dei templi, e nasce così il Bharata Natyam, bharata come “India” e natyam come “danza”.
Anche se una spiegazione più esoterica riunisce nelle sillabe “bha”, “ra”, “ta” i significati di espressione, melodia e ritmo, le tre componenti fondamentali della danza.
Rukmini Devi fonda a Madras (che ora si chiama Chennai), nello Stato meridionale del Tamil Nadu, l’Accademia Kalakshetra, dove la danza viene insegnata con una disciplina quasi marziale, aprendo le porte anche ai non-indiani.
Soprattutto francesi, russi, giapponesi e italiani. Che devono faticare tre volte più degli indiani per rielaborare i contenuti di una cultura totalmente diversa.
(clicca qui per leggere il finale della storia)
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