All’osteria di Candido mi aveva portato un amico che lavora da precario nel sottobosco delle partite Iva Rai, insieme a un altro collega che la vita mi aveva fatto incrociare in un corso di formazione obbligatoria (c’è qualcosa a cui non siamo obbligati? A occhio e croce, direi di no).
A Roma non è facile incontrarsi. Le giornate si rincorrono tra la luce del sole filtrata dai pini e il fiato stanco della metropolitana. Ma volevamo vederci a tutti costi, “quando ti ricapita una giornata libera infrasettimanale, poi tu sabato e domenica vuoi tornare a casa”. Per Katia, “casa” è la provincia di Salerno, e ci va appena ha due giorni di riposo dal suo lavoro di cuoca in uno degli hotel più belli del Gianicolo e forse di tutta la capitale. Quando vivevamo insieme, con altre ragazze in un grande appartamento col terrazzo al quartiere Aurelio, avevamo una panchina preferita. “La panchina del pianto”, la chiamavamo. Andavamo a sederci là, al buio tra i tetti della città, a fumare una sigaretta e salutare gli aerei che passavano. Da quella casa non nostra, in una città non nostra, ci sentivamo meno sole guardando le luci delle finestre e la vita che in quelle famiglie scorreva piano, ogni sera uguale a sé stessa, una vita forse serena ma non felice, come succede ai più fortunati, in fondo. Com’era prevedibile, la nostalgia aveva sempre la meglio sulla nostra ambizione di fiera indipendenza, e spesso finiva a lacrime.
Da allora sono cambiati i lavori, le coinquiline e i quartieri adottivi. Ma non siamo cambiate noi e, incastrando turni e orari con perizia da equilibristi, appena possibile ci vediamo. Giovedì sera, “ti porto in un posto dove si mangia bene”. Temo sempre i giudizi di Katia in termini culinari. È “un’addetta ai lavori”, e io vado avanti a forza di formaggio a fiocchi e tacchino affettato con contorno di insalata in buste. Da lei subisco sguardi di severa disapprovazione ad ogni ispezione del mio frigo, ma so che mi vuole bene anche se mangio “schifezze”. Stavolta, però, ero sicura che non l’avrei delusa.
Per me che vado in giro inseguendo gli autobus, basta uno spostamento da Cornelia alla Balduina su un motorino 125 per sentirmi Audrey Hepburn. All’osteria ci accoglie Valentino, il figlio di Candido e Lella, tifosissimo giallorosso, ironia pungente e caciarona da romano doc. Ci sediamo all’aperto, i caschi poggiati sulla siepe. Pasta e fagioli, una gricia.

Katia non si lamenta, è già un buon segno. Per il resto, segni pochi, parole tante. La sveglia che suona troppo presto, il lavoro nuovo e quello che non si trova, i colleghi infami, i soldi che non bastano mai. Valentino che passa e ripassa e chiede: “Ma come la sopporti, so’ due ore che sta a parla’!”
Inizia a piovigginare. Mi alzo per pagare alla cassa, dentro, tra le pareti con le piastrelle piene di adesivi anni ’70. Aspetto qualche minuto, non arriva nessuno. Intercetto Valentino con due piatti di coratella in mano. Io in mano ho il portafogli, ma lui mi ignora, poi rientrando si avvicina e mi dice: “Che te serve?”. “Dovremmo saldare il conto, che è tardi, domani ci alziamo presto e sta pure piovendo”. “Va’, va’ andate”. E, coi suoi modi spicci da oste, si gira e se ne va. Katia è interdetta, penso che stia scherzando e magari non si paga dentro, ma al tavolo, chissà. Vado verso l’esterno, mi fermo sulla soglia e lo blocco sul gradino. “Dai, fammi pagare che ce ne andiamo”, gli dico sorridendo col sottotitolo “ok abbiamo scherzato ma adesso dimmi quanto viene così ci sbrighiamo”.
Lui si fa serio come mai era stato per tutta la sera tra i tavoli: “Te ne sono successe cose belle ‘sta settimana?”. Mi è servito qualche secondo di silenzio per rispondere, e ho pensato che forse andrebbe fatto un report settimanale delle cose belle che ci succedono perché pensiamo, per lo meno io, soprattutto a quelle scoccianti. “No vabbé, non è successo niente di che, ma che c’entra…” e insistevo per pagare finché Valentino, stanco, dice: “Ma permetti che stamo sempre a combatte co’ tutto e co’ tutti, sempre a rincore chissà che, posso o no, almeno pe’ stasera, favve crede che ancora ce pò esse quarcosa de bbono sotto a ‘sto cielo? Ve posso o no lascia’ co’ ‘n po’ de speranza?”.
Io e Katia siamo rimaste senza parole. Ci siamo sentite sorprese e felici. Il motorino scivolava su viale Angelico, via Ottaviano e le luci arancioni delle gallerie di Porta Cavalleggeri. L’indomani sarebbe stato un nuovo, ennesimo giorno di individuale lotta quotidiana, ma noi ci sentivamo più leggere e meno sole.