di Patrizia Caiffa – Chi ha visto il bellissimo film del regista Matteo Garrone Il racconto dei racconti, tratto dalla raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, ricorderà forse l’episodio interpretato da Vincent Cassel, che impersona il ruolo di un re.
Ebbene è ambientato proprio nel castello di Roccascalegna, nel chietino, in Abruzzo: un piccolo regno medievale, sospeso tra cielo e terra.
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Durante il più famoso itinerario nella Costa dei Trabocchi che va da Ortona a Vasto Roccascalegna merita una visita, spingendosi verso l’interno.
Il castello, nato con funzione difensiva domina la Valle del Rio Secco. Inizialmente c’era una sola torretta di avvistamento, poi sono state aggiunte le altre.
Dall’alto si può ammirare una bella vista del piccolo borgo e della Majella.

La struttura attuale risale intorno al XVI secolo, prima era stata costruita dai principi longobardi per difendere i monaci della vicina abbazia di San Pancrazio dal rischio di incursioni dei saraceni dal mare.
Curioso vedere, all’interno del castello, veri e propri forni in pietra che inizialmente erano stati usati a scopi civili, poi come strumento di guerra: da qui veniva gettata la pece per ustionare i soldati che aggredivano la fortezza.

La torre a base semicircolare è stata pensata per resistere ai colpi di cannone. C’è un ponte levatoio inutile – visto che intorno non c’è un fossato con acqua – e un secondo piano dedicato alle stanze baronali.
Nel XVII secolo il castello venne abitato da vari baroni, tra cui Giuseppe Corvo, soprannominato Corvo dei Corvis perché aveva posto un corvo all’ingresso:
se gracchiava all’arrivo di una persona, quest’ultima doveva pagare per entrare.
Intorno a Roccascalegna circolano anche molte leggende, rivelatasi poi false, come l’impronta insanguinata appartenente ad un barone ucciso durante l’esercizio della ius primae noctis, che poi risulta un falso storico sfatato di recente: pare non esistano, infatti, testimonianze scritte di questa consuetudine ed è poco probabile perché i vari nobili, che si diceva pretendessero le grazie delle popolane, avrebbero avuto troppi figli da mantenere.
Come ogni castello che si rispetti ci sono anche le carceri, per pene di breve durata o per la pena di morte: i poveri condannati venivano lasciati qui a morire di fame e di sete.
Una stanza contiene ancora uno degli strumenti di tortura utilizzati, come la garrota, che forava la nuca del malcapitato. L’ultimo utilizzo di una garrota è avvenuto in Spagna una cinquantina di anni fa, usata sotto il tragico regime di Franco.

Nella stessa sala spicca anche un enorme lanciafiamme bizantino che produceva il cosiddetto fuoco greco, l’arma segreta che impediva di spegnere le fiamme con l’acqua. Unici rimedi: la sabbia o l’ammoniaca.

In un altra stanza del castello c’era un magazzino per conservare le derrate alimentari al fresco e proteggerle dall’umidità. Una cisterna raccoglieva poi le acque piovane: per depurarle vi gettavano dentro delle anguille, poi l’acqua veniva bollita.
Una torre nasconde inoltre un segreto militare utilizzato spesso: vi si accede tramite una scala sinistrorsa, per disarmare i possibili aggressori che impugnavano la spada solo con la mano destra.
Al secondo piano una sala veniva usata per i banchetti o come sacrestia. La chiesa del castello, ora sconsacrata, ha ancora l’altare attaccato al muro come nel rito preconciliare della messa in latino. Il pavimento obliquo evitava possibili allagamenti e rappresentava l’ascesa verso Dio.
Piccola nota di colore: i paesani dovevano pagare i baroni per partecipare alla messa. Allora si autotassarono per costruire una loro chiesa, intitolata ai Santi medici Cosma e Damiano.

Il castello perse la funzione difensiva nel 1577. Dal 1700 al 1980 visse nel più totale abbandono, finché l’ultimo proprietario non lo donò al comune di Roccascalegna, che ha portato a termine i restauri nel 1996.
Ora è fruibile da tutti con semplice biglietto d’ingresso di 4 euro, con guida o senza.