di Filippo Bocci – Non si può restare indifferenti nel leggere l’ultimo saggio di Marco Revelli pubblicato da Einaudi, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente. Tuttavia l’indifferenza è una delle parole importanti e ricorrenti di questo lavoro, così profondo e ricco di suggestioni.
Lavoro di scavo, che poggia e sussiste sulla natura di un concetto fondamentale, la nozione di “umano”, che diverse epoche storiche hanno modellato, riformulato e infine restituito all’attualità sotto forma e significato nuovi.
Il rigoroso ragionamento di Revelli parte dall’età classica, dove l’idea di humanitas abbracciava valori e atteggiamenti di benevolenza che, esaltati da sistemi più alti di pensiero e di cultura, assurgevano a principi di tolleranza e altruismo fra gli uomini.
Si procede poi verso il sedicesimo secolo con le grandi rivoluzionarie scoperte, a partire da quella dell’America “che raddoppia d’un colpo lo spazio fisico dell’esperienza umana… e produce l’effetto ottico disorientante della possibilità di raggiungere un medesimo punto navigando in direzioni opposte”.
Saranno Copernico e Galileo a dare il colpo definitivo al vecchio, consolidato assetto, durante quello che sarà il “tempo sospeso tra il non più dell’ormai pienamente consumato Ordine degli Antichi… e il non ancora dell’Ordine dei Moderni.
È il “time out of joints” di Amleto o il “tempo altro” di Don Quijote, personaggio “perfetta incarnazione dell’anacronismo”.
Sulle tracce della ferocia, Revelli si dilunga in una esemplare analisi delle opere di Hieronymus Bosch, visionario pittore olandese di fine ‘400, soffermandosi, tra gli altri, sul dipinto Incoronazione di spine.
La scena vede quattro anonimi sgherri, ognuno piegato verso la figura centrale del Cristo.
Deridono, tormentano ma i loro sguardi, sottolinea Revelli, sono vuoti, fissano un nemico che è il nulla, il loro è un odio assoluto, senza motivazione, interiore e intrinseco all’umano, (in)umano infine.

È in fondo, avverte altrove l’autore, lo stesso odio degli odierni “leoni da tastiera” che festeggiano in rete i morti annegati nel mar Mediterraneo, è l’odio di per sé stesso.
L’uomo è nulla per l’altro uomo, e ciò che lo caratterizza(va) non esiste più: è la caduta dello sguardo (come nel dipinto di Bosch), dell’ascolto, del pensiero.
Sarà Auschwitz nel ‘900 – continua Revelli nel suo ragionare – a segnare il discrimine dove il disumano è entrato nell’umano, si è fatto “(in)umano”, e da allora il pensiero e la cultura non bastano più a caratterizzare l’uomo e a distinguerlo dal barbaro, così come gli umani dalle bestie.
I nazisti hanno dimostrato come di giorno si potesse scientificamente, inumanamente appunto, sterminare, e la sera leggere Goethe e Schiller o ascoltare Beethoven.
In questo non più riconoscere l’altro trova forza la corrispondenza che Revelli riscontra, mutati evidentemente i presupposti e le intenzioni, con l’attuale pandemia: il coronavirus ha infatti azzerato l’humanitas, elevando a legge il distanziamento sociale e costringendo i medici negli ospedali, allo stremo di mezzi e personale, a scegliere, come ad Auschwitz, tra la vita e la morte.
Pur senza un’ideologia del disumano, l’eccezionalità è divenuta quotidianità, ed è sinistro il fascino della vicinanza verbale tra “decidere” e “decedere” che l’autore suggerisce.
Il discorso si allarga infine sull’altro attualissimo concetto del “postumano”.
L’uomo vive un’esaltazione tecnologica superomistica, dove il suo dominio sul mondo non conosce apparentemente confini.
È l’Homo deus, “un uomo oltre l’uomo” che ha perso ogni specificità e differenza con il divino: “Un oltre-umano, in sostanza, in cui di ‘umano’ sembra restare ben poco, e che assomiglia piuttosto a una sorta di universo an-umano per non dire dis-umano”.
Contemporaneamente anche gli antichi riferimenti verso la natura perdono forza, e fa fatica a reggere la “demarcazione tra Homo sapiens e resto del vivente”: persino il regno vegetale, che era stato dato da Dio all’uomo come forma di supremazia, rivela “alla luce dei più recenti studi, una propria, solo apparentemente muta, forma di intelligenza”.
In questa evanescenza del senso dell’umano, hanno facile gioco le politiche moderne,
le “Sovranità” che possono fare un uso disinvolto della paura,
portandola dal piano di natura a quello istituzionale, dandole fondamento legislativo.
Se ne esce? Revelli, citando l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, sottolinea come il pontefice, rivoluzionarmente, intitoli il secondo paragrafo “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”.
Solo restando umani, pur superando i confini dell’anthropos,
solo recuperando i valori della benevolenza e del riconoscimento dell’altro,
porremo “le basi per una possibile fondazione di un’idea di ordine finalmente ‘umana’ perché capace di collocare l’Uomo nel suo giusto posto (periferico e paritario) in un mondo che è chiamato a co-abitare anziché a possedere”.
Marco Revelli ci propone questo viaggio rischioso dentro noi stessi attraverso un’indagine oggettiva, puntuale, che argomenta con coerenza, stabilendo nessi molto precisi e mai scontati.
Uno studio complesso, inevitabilmente impietoso, ma che non potrà non attrarre il lettore onesto, disposto a mettere anche e prima di tutto sé stesso in discussione.
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