di Massimo Lavena – Con una cerimonia conclusiva ricca di sentimento e richiami alla tradizione nipponica e alla gioia dello sport, la fiamma dello Stadio Nazionale Olimpico di Tokyo si è spenta. Si avviano verso casa gli ultimi atleti che hanno partecipato alle gare del 7 e 8 agosto.
Si dirà, in tanti lo dicono e scrivono da giorni, che adesso inizia il tempo delle riflessioni, di analisi e calcoli, e di critiche che possono essere anche feroci. Se si guarda alla dimensione generale, i XXXII Giochi Olimpici di Tokyo 2020 resteranno nella storia per la loro unicità: senza pubblico, con restrizioni fortissime di movimento e di contatto tra atleti e tra atleti e giornalisti, con obblighi di partenza repentina entro le 48 ore dall’espletamento della propria prova agonistica.
Saranno ricordati per il tifoni che erano attesi ma che non hanno fermato i Giochi come non hanno fermato quell’attenzione nascosta, pudica, distaccata che il popolo giapponese ha dedicato alle competizioni.
C’è chi ha letto la cosa come un disturbo, alla luce delle richieste di cancellazione definitiva dei Giochi per i pericoli della pandemia.
Invece l’atteggiamento complessivo del popolo giapponese è stato di un distaccato coinvolgimento che si è manifestato nel successo televisivo delle gare ma soprattutto nella grande gentilezza e professionalità delle migliaia di volontari:
che hanno letteralmente svolto sia il ruolo di deus ex machina di tutto ciò che riguardava assistenza, portare acqua, indirizzare, spiegare, sempre sorridenti, sempre accoglienti, sempre distanti, coi guantini bianchi, con le mascherine che poco celavano sorrisi felici e commossi; ma hanno svolto anche il ruolo estemporaneo di tifosi, applaudendo chiunque facesse una gara, in un palazzetto o lungo strada.
La presenza dei volontari è stata salvifica e tonificante per chiunque ha vissuto i Giochi, per assurdo anche attraverso la televisione. Perché trasferivano la gioia con tutti i loro gesti.
Una riflessione deve essere fatta, con grande serietà, a partire dal tanto citato medagliere: non si può fare purtroppo una comparazione, non si possono fare paragoni con i trionfi sportivi di Gran Bretagna, Francia, Australia, Germania o Olanda.
Per cultura di base e soldi spesi nell’educazione sportiva il nostro è un miracolo che dura però da Barcellona ’92.
La realtà è che noi viviamo in un Paese nel quale si vandalizzano i canestri dei campetti pubblici, non si costruiscono palestre e piscine, lo sport scolastico praticamente non esiste più, a parte miracoli tipo i Trofei AICS di Milano.
Abbiamo il quartetto d’oro dell’inseguimento a squadre su pista e abbiamo un solo velodromo coperto, a Montichiari, che chiuderà per circa 5 mesi per urgenti lavori.
Non tutte le università hanno il loro CUS o il corso universitario in Scienze Motorie. Figuriamoci strutture sportive.
Dobbiamo studiare e costruire palazzetti nei paesi, piscine nei quartieri, bisogna costruire palestre multifunzionali nelle scuole, offrire la possibilità di scegliere con proposte mirate, facendo conoscere lo sport nelle sue diverse sfaccettature.
Dovremo analizzare gli errori che hanno portato al fallimento delle spedizioni della pallavolo e della pallanuoto (dove il setterosa non era neanche presente a Tokyo), ma facendone tesoro, per guardare lontano e ripartire.
La politica deve aiutare le palestre di quartiere della boxe, delle arti marziali, deve impegnarsi localmente per portare l’acqua calda nelle docce degli spogliatoi dei campetti.
E le federazioni debbono avere il coraggio di sfruttare i successi di Tokyo 2020 per programmare in fretta in vista non di Parigi 2024 – dove molti degli atleti saranno nuovamente presenti – ma di Los Angeles 2028 e di Brisbane 2032. Un bambino di 11 anni oggi, in Australia, in occasione dei XXXV Giochi Olimpici, avrà 22 anni.
E se pensiamo che la trionfatrice della gara di tuffi 10 metri dalla piattaforma, la cinese Quan Hongchan, a Parigi avrà 17 anni, allora
il lavoro da fare deve essere costruttivo e anche da sognatori: sì, sognare che anche in Italia la scuola si possa tornare a far sport;
che le società sportive non debbano accapigliarsi per avere qualche ora nelle rare palestre scolastiche agibili; che le amministrazioni comunali capiscano l’importanza dei campetti sportivi all’aperto, curati e custoditi come bene prezioso.
Dobbiamo fare nostra la cultura dello sport britannica, francese tedesca. Non quella statunitense, dove la competizione è estremizzata e da subito si fa quasi sempre e soltanto la logica della vittoria a tutti i costi, e chi non vince pian piano viene lasciato per strada. Non è quello che ci serve.
Ci serve la memoria,
il ricordo delle gioie e dei campioni, delle lacrime per la sconfitta e delle lacrime per la vittoria, degli errori di programmazione delle squadre e delle sorprese delle individualità più sconosciute.
Sono stati Giochi indimenticabili per tanti motivi: ha vinto l’accettazione delle diversità, l’amicizia sul podio, i cardigan di maglia lavorati sugli spalti, la difesa dalle prevaricazioni politiche, la testimonianza dei profughi, l’amore oltre ogni opposizione, la mescolanza sempre più viva tra i popoli, le medaglie di nuovi Paesi, il progresso tecnologico per tutti.
Tutto questo dentro il Giappone complicato e minimalista, tra il futuro dell’innovazione e il fondamento della tradizione millenaria del sole nascente. E allora salutiamo Tokyo 2020 e avviamoci verso Parigi, la Ville Lumière, che accoglierà gli atleti del mondo per la terza volta, dopo il 1900 ed il 1924.
Grazie Tokyo. Buona fortuna Parigi.