di Vincenzo La Monica e Giuseppe Piccinno – Il nostro futuro sono i bambini. Siamo tutti d’accordo? E allora perché sono tutti adulti i protagonisti de “Il sol dell’avvenire”, nuovo film di Nanni Moretti?
Perché non prende la parola neanche un bambino di cui, pure, era piena l’Italia degli anni ’50 in cui si dipana una parte della trama? Possibile che siano solo per gli adulti le tigri e gli elefanti del circo Budavari entro cui si muove tanto del film fittizio che si gira dentro il film vero di Moretti?
Le risposte possibili sono molte. Perché i vecchi sono tutti perennemente scontenti del loro presente, ad esempio. E si accontentano di maledire la loro epoca percorsa da registi feroci e piattaforme streaming “in 190 paesi”.
Perché sono i vecchi a rimasticare i “mi ricordo, sì, mi ricordo“.
Perché i vecchi sono pieni di rimpianti e scarsi di fantasia. E quella poca che gli rimane un po’ vogliono tenersela solo per sé, anziché farla arrossire davanti allo strapotere immaginativo dei bambini.

In fondo la Palombella Rossa è poi finita comodissima tra le braccia del portiere, come quei rigori tirati con troppa supponenza.
E se invece, ed è la nostra personale visione del Nanni Moretti magnifico settantenne, fosse perché i vecchi sono contigui ai bambini eppure gelosi dell’ultimo guizzo?
Ed ecco che quando il Tempo li ha mangiati (come sempre Kronos ingoia i suoi figli) e nel giardino d’infanzia sono cresciute le ortiche, e molti padri e molte madri (alla lettera o dentro una metafora) li hanno abbandonati,
i vecchi si tengono ben stretti i giochi e le fantasie, quelli che sapientemente amalgamati diventano Arte.
Il Sol dell’avvenire potrebbe sembrare in effetti una pellicola a cinque centimetri dall’essere il solito “film alla Moretti“, ma per un bambino quella misura è grande almeno un paio di anni luce e ci si possono stipare storie, canzoni, ripensamenti, fantasie, tic, citazioni, scaramanzie e trovare ancora spazio per farci entrare anche gli amici (Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio, Lina Sastri etc. etc.).
In quei cinque centimetri lunghi ventimila miliardi di chilometri il protagonista del gioco non si chiama più Michele, il solito primo della classe dispotico ed esibizionista dei film degli anni ‘80; ma Giovanni.

E questa volta le sue azioni sono fuori dalla nevrosi: i capricci sono capricci, dispetti i dispetti, sempre uguali le golosità, ma quando la corrente della paura soffia forte (ricordiamoci che questo bambino ha settant’anni) non si può che chiamare la mamma.
Per continuare a fare i conti con quel grumo di idee e amore e doveri e piaceri e nevrosi che in Palombella Rossa, costantemente richiamato, era rimasto troppo rasposo e maniacale.
Ci stiamo proprio tutti in questo avvenire che tramonta (o passato che risorge, fate voi).
Lui e noi, suoi compagni di gioco, cresciuti insieme appiccicati alla finestra contando scarpe e immaginando persone di inesistente perfezione. O celebrando messe laiche. Prendendo in giro o prendendosi troppo sul serio.
Tutti fin troppo consapevoli che non ci sono più speranze a portata di mano e allora piuttosto che avviarci al nichilismo e alla disperazione, dobbiamo inventarcelo un futuro, magari partendo dal passato, la materia che i vecchi sanno maneggiare meglio. Per spossatezza e per saggezza.

Con il gioco, con l’arte, la finzione, i riti, i sopralluoghi (in monopattino!), una certa resistenza. Mettendo in bocca ai personaggi le parole che avremmo voluto dire, aprendo parentesi di giochi all’interno del gioco più grande, credendo fermamente che una canzone (di Franco Battiato, ovvio) possa cambiare il finale alla storia e alla Storia.
Con tanto di passerella prima dei titoli di coda, eccessiva, didascalica, da circo (no, l’omaggio ennesimo di un cineasta a Fellini no!!!), se non fosse che la sfacciata semplificazione che conduce alla felicità finale denuncia soprattutto il bisogno di consolazione, l’orgoglio di chi si accorge di non aver più le forze per dimenarsi contro tutti per raddrizzare il mondo e allora saggiamente aggiusta solo se stesso.
Insomma:
Il sol dell’avvenire illumina una volta per tutte la carriera di un regista che abbiamo sempre guardato come avessimo voluto accarezzargli una spalla e adesso abbracciare forte
mentre imbastisce il suo “Facciamo che io ero… un vecchio regista bambino”.
Sicuri, quasi, che questa volta non si ritrarrebbe acidamente…
