di Benedetta Bernardi* – “Quello che non ci uccide ci rende più forti” (F.Nietzsche). L’aforisma scelto da Margherita Vetrano racchiude il senso e il valore di un’esperienza difficile e dolorosa che ha vissuto e saputo trasformare in un’opportunità di crescita personale, di coppia e servizio per gli altri. Così ha scoperto la forza della fragilità che diventa Bellezza. Margherita è nata a Giulianova, in Abruzzo, e vive a Roma con il marito e tre figli. E’ laureata in Economia e lavora in banca. Il più piccolo, Edoardo (ma in famiglia lo chiamano “Didi”), è nato prematuro ed è stato diversi mesi in terapia intensiva neonatale. Su questa esperienza Margherita ha scritto un libro, intitolato “Il nostro piccolo sole“. “La mia vita si divide tra un prima e un dopo il mio trasferimento – racconta -. Nel periodo del prima, mi dedicavo alle cose che mi piacevano, viaggiavo, frequentavo i festival di cinema, in media un paio all’anno, Venezia e il Far East film festival”.
Come nasce questa passione per il cinema?
Fondamentalmente sono una nerd, a quattro anni ho visto la versione integrale di Via col Vento e a sei il film Excalibur, il classico su Re Artù. Sono sempre stata appassionata. Nel periodo tra la fine dell’università e il trasferimento a Roma avevo poche occasioni di vita sociale, quindi frequentare il cinema era un modo per evadere dalla solitudine. Poi è diventato qualcosa di più, iniziando a scrivere recensioni prima amatoriali, poi via via più professionali, fino ad arrivare a scrivere per Castle Rock, un sito di cinema molto accreditato, che ora ha chiuso.
Come hai vissuto l’esperienza nel reparto di terapia intensiva neonatale?
Essendo nato prematuro, Edo ha avuto ritardi significativi nello sviluppo, ha imparato tardi a stare seduto, a camminare, a parlare. Dopo la nascita, ha trascorso 5 mesi in terapia intensiva neonatale. A 8 mesi di vita è anche arrivata la diagnosi di sordità. Sono stati mesi molto duri, anche perché i fratelli di 3 e 4 anni sono stati travolti dalla situazione. Per tutti è stata un’esperienza molto pesante, che ci ha cambiati. All’epoca non avevamo la più pallida idea di come funzionassero le cose in terapia intensiva neonatale per cui spesso andavamo per vedere Edo ma poi ci dicevano sta male, tornate a casa; ci chiamavano perché era in pericolo di vita, dovevano operare, poi le cose cambiavano velocemente, ci dicevano non venite più, è meglio aspettare.

Su questa esperienza hai scritto un libro. Ti ha aiutata a stare meglio, a trovare qualche risposta?
È stata la psicologa a cui avevo chiesto aiuto a suggerirmi l’idea del libro dal diario che io tenevo durante la terapia. Eravamo io e mio marito e, anche se questo ci ha uniti di più, eravamo soli. Ho chiesto aiuto per capire come gestire la socialità e le mie reazioni nei confronti dei famigliari e amici. Così ho colto l’occasione e ho deciso di pubblicarlo. Il libro mi ha aiutato molto perché ho chiuso lì tutto quello che è successo, quello che avevo da dire come se fosse un cassetto. Ha anche aiutato i miei genitori a capire meglio: tante cose le hanno imparate leggendo il libro. Si sono resi conto che c’era stato un terremoto nella nostra vita e non era stata una cosa semplice.
Quali sono stati i frutti più importanti del libro?
Incontrare le persone, anche in occasione dei viaggi che ho fatto per pubblicizzare il libro e attraverso i contatti su Facebook, mi ha dato modo di dare un senso alla nostra esperienza. Sono convinta che se qualcosa succede nella vita, c’è sempre un motivo e io l’ho trovato nel mettere la nostra esperienza a servizio degli altri. Per alcune persone è stato un modo per avere delle risposte, per altre no, ma le ha fatte sentire meno sole. Il libro è stato visto da molte persone come un racconto di rinascita, incoraggiamento per la vita ed è così perché io non volevo che fosse solo una lettura riservata a chi avesse avuto un’esperienza simile, ma fosse un modo per aiutare le persone a uscire da situazioni complicate. E, allo stesso tempo, mi ha fatto evadere quando ero concentrata solo sulla terapia, i neonati, i ritardi nello sviluppo fisico e cognitivo.
I tuoi viaggi ti hanno portato anche a fare volontariato in Sudafrica. Perché e cosa hai sperimentato laggiù?
La curiosità è uno dei lati della mia personalità, e ho sempre sentito di voler contrastare l’ingiustizia. Vengo da una famiglia benestante dove non ci sono mai stati grossi problemi e ho sempre avuto la sensazione che tutto fosse troppo semplice. A un certo punto ho sentito l’esigenza di confrontarmi con la malattia, la disabilità, la povertà e il pericolo, volevo capire dove accadevano le cose più gravi, dove e come viveva la gente povera. Non era possibile che la vita fosse tutta lì, non mi accontentavo più solo dei libri. In Mozambico mi sono trovata in una cittadina di frontiera a insegnare canzoncine in inglese ai bambini, a Johannesburg, nell’assistere i bambini di strada, ho rischiato di non tornare più a casa. A posteriori, mi sono resa conto che tutto questo bagaglio di esperienze mi ha preparato a mio figlio, a essere più ricettiva e ad accettare la fragilità di Edo. È come se mi fossi allenata per arrivare a questo momento il più preparata possibile.
Quali difficoltà state incontrando nel presente con Edoardo?
Spesso le famiglie sono lasciate sole; soprattutto se i genitori non hanno studiato o non possiedono i mezzi economici o la voglia di capire, questi figli sono abbandonati a sé stessi.
Quale è il vostro stile educativo?
Edoardo frequenta la scuola statale insieme ai fratelli. Lo stile educativo è omogeneo, tenendo conto delle inclinazioni di ognuno. Vogliamo che crescano consapevoli e responsabili ma rispettando le esigenze della loro età. Anche per loro sono stati momenti difficili e hanno dovuto imparare in fretta. I fratelli sono una risorsa per lui e noi.
Per concludere, riprendendo il discorso sui tuoi interessi culturali. Quale film e quale libro ti porteresti su un’isola deserta?
Come film Nosferatu di W.Herzog. Non lo trovo solo un film dell’orrore, se lo si legge in un certo modo, è estremamente poetico. Come libro…mah ho letto tanto e ci sarebbero molti libri, in un certo periodo leggevo anche un libro a settimana. Come libro…. Sì quello di Mishima, Confessioni di una maschera.
* L‘articolo è stato realizzato nell’ambito delle esercitazioni svolte dalle partecipanti alla edizione 2020 del corso “Dalle news tossiche al giornalismo costruttivo e di comunità” organizzato dall’associazione B-hop.
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