(dalla nostra corrispondente a Parigi) – Domenica sera. Piove. Place Colette, a pochi passi dal museo del Louvre. Un mucchietto di persone assemblate davanti al palazzo d’angolo. È una serata da teatro. Questo bel palazzo porticato di fronte al Palais-Royal è la sede della Comédie Française, il primo teatro di Stato della storia moderna.
Fondata nel 1680 per decreto del Re Sole Luigi XIV, la Comédie Française è tutt’oggi il solo teatro francese pubblico a disporre di una compagnia stabile di attori, secondo un principio oggi ormai quasi del tutto desueto. Da oltre tre secoli la troupe di attori ha, secondo l’ordinanza reale originaria che non è mai stata cambiata, il monopolio delle rappresentazioni teatrali in lingua francese, a Parigi e nei suoi dintorni. Ogni opera in lingua francese, selezionata da un apposito comitato di lettura, e messa in scena alla sala Richelieu, entra nel repertorio della Comédie Française. Tutt’oggi gli autori più rappresentati sono Molière (il “patrono” della Comédie Française), Racine, Corneille, de Musset e Marivaux.

Sul lato del palazzo che dà sulla Galérie du Théâtre Français una fila di persone, per lo più ragazzi, aspettano. È la fila per il botteghino esterno. Un’ora prima della rappresentazione, infatti, il teatro mette a disposizione un centinaio di posti a 5 euro l’uno (normalmente un posto alla sala Richelieu va dai 13 ai 41 euro). Davanti al botteghino esterno c’è la fila tutte le sere delle rappresentazioni. Riesco a guadagnare il mio biglietto a 5 euro ed entro in un pezzo della storia francese. Questi posti sono in seconda galleria, a visibilità ridotta. Ma alla Comédie Française vige forse ancora il principio secondo il quale si va a teatro per esserci. Quello che accade in scena è secondario.
E invece no. Lo spettacolo comincia come da programma, alle venti e trenta in punto. Il teatro è al completo. Cosa aspettarsi da una istituzione così antica, che mette in scena testi del ‘600, in versi alessandrini, e il cui atto associativo è rimasto invariato dal 1680? La compagnia, diretta da Anne Kessler, va in scena con un’opera di Marivaux, “La doppia incostanza”. Come ogni volta di fronte a una rappresentazione teatrale parigina, mi colpisce la cura per l’allestimento: cinematografiche le scenografie e i costumi. Il pubblico ride a battute e motti scritti nel 1723, sta al gioco, segue gli intrecci amorosi che si annodano senza troppe complicazioni psicologiche. Dalla mia poltrona vedo gran parte della platea. Nessuna lucetta da smartphone disturba il buio in sala. Nessuno scartocciamento di bon-bon fa distogliere lo sguardo dal palco. Il pubblico è vivo e presente, hic et nunc, qui ed ora. Anche trecento anni dopo.