Il brasiliano Paulo Freire (1921-1997) è stato un importante pedagogista del secolo scorso, conosciuto per le sue visioni d’avanguardia e “anticoloniali” del sistema educativo. Per Freire, lo studente non doveva essere un “conto vuoto” riempito da un docente “bancario”, ma un agente del proprio cambiamento. Dalla pubblicazione del suo lavoro principe “La pedagogia degli oppressi” sono stati molteplici nel mondo gli approcci pedagogici ispirati al superamento della dicotomia docente-studente. Anche in Italia il pensiero del pedagogista, seppure nella sua provocazione, è sempre più seguito e presente. A Roma, nel quartiere di Tor Pignattara, l’associazione Asinitas, insieme a Studio Kappa, organizzano nei prossimi giorni due weekend di formazione (14/15 marzo e 11/12 aprile) che avranno come focus il metodo pedagogico di Freire. Due occasioni in cui i partecipanti avranno modo di sperimentarne direttamente le applicazioni nelle comunità locali e nell’ambito dell’insegnamento. Noi di b-hop ne abbiamo voluto parlare con Anna Zumbo, formatrice e consulente per il rafforzamento delle organizzazioni e lo sviluppo di comunità di Studio Kappa.
Il metodo innovativo proposto da Paulo Freire rimane un grande punto di riferimento. Può spiegarci in sintesi quali sono le novità più importanti e i concetti basilari su cui si fonda questo nuovo approccio?
Tralasciando i vari aspetti metodologici, che necessiterebbero di una argomentazione assai più articolata, la pedagogia del Freire parte proponendo fondamentalmente una serie di domande: Amiamo noi stessi? Amiamo la vita? Amiamo gli uomini? Amiamo il mondo? Sono infatti l’amore e la fiducia verso le persone che muovono, per Freire, tutte le azioni che vengono strutturate non come un intervento PER la gente, ma come un intervento CON la gente, attraverso il quale tutti cresciamo insieme come uomini e donne coscienti, responsabili e liberi, capaci di assumere la responsabilità di costruire INSIEME un mondo migliore. La rassegnazione, la lamentela, l’ineluttabilità degli avvenimenti, l’abitudine alla delega comoda, sono gli atteggiamenti da contrastare, troppo comuni in una società spesso plasmata sull’individualismo, educata al consumismo e governata con strategie che affrontano i problemi in modo tranquillizzante e normalizzante. La filosofia dell’educazione del Freire verte a un processo di “umanizzazione” del mondo. Il suo approccio è radicato in una visione dell’uomo come portatore di un’aspirazione, di una vocazione a essere migliori, a essere “di più”. Una pedagogia che è metodo sistematico per far esprimere questa tensione, riconoscerla, darle fiducia, portarla a dimensione comunitaria e tradurla in una forza per trasformare il mondo.
Ci sono state iniziative, esempi fortunati di aggregazione e coesione sociale basati sull’impostazione di Freire?
Da quando il libro La pedagogia degli oppressi è stato pubblicato per la prima in Italia (1971, ndr), ci sono stati vari interventi sociali ispirati all’approccio che Freire proponeva. Tra i primi, ricordo quelli attivati da un gruppo di volontari del Monferrato guidati da don Gino Piccio. Tra le più significative, l’intervento di Ricigliano (SA), nel periodo 1980 – 1983: quattro anni di presenza e di lavoro con la gente, che hanno fatto nascere una presa di coscienza critica dei problemi comuni ispirando la forza e la responsabilità di trovare soluzioni condivise nella ricostruzione del proprio paese distrutto dal terremoto dell’Irpinia. Poi ancora il caso di Verrua Savoia (TO), tra il 1978 e il 1980: un isolamento diventato “senso di comunità”. Ricordo a proposito l’iniziativa e la mobilizzazione per installare un telefono in ogni cascina dove vivevano gli anziani”.
Qualche esempio più recente?
Tra quelli condotti da Simone Deflorian (presidente dello Studio Kappa di Asti), ve ne sono alcuni in paesi della provincia di Cuneo: uno, durato cinque anni, ha portato la gente a individuare come problema centrale della comunità quello della mancanza di un luogo di aggregazione per i giovani. I giovani stessi si sono attivati e hanno iniziato a partecipare alle riunioni del Consiglio Comunale richiedendo delle sedute aperte con possibilità di esprimere bisogni e richieste. Il risultato pratico? Dopo alcuni mesi è stato costituito un Centro di aggregazione, in cui i giovani, organizzandosi in associazione, si sono assunti la responsabilità della gestione. Un ultimo esempio, l’intervento condotto dall’Associazione Popoli in Arte di Sanremo (IM), che a Haiti, nel triennio post terremoto del 2010, ha attivato un processo di formazione coinvolgendo dalla base tutti gli attori di una scuola periferica estremamente povera e conservatrice (circa 900 alunni), accompagnando un processo di responsabilizzazione “storica” degli attori stessi, fino ad arrivare ad una trasformazione della didattica, dell’organizzazione interna e della relazione con l’esterno.
Più in generale, cosa potrebbe dare alle nostre comunità, mai come adesso così piene di tensioni e scontri (penso al caso Tor Pignattara), quest’idea educativa? È una proposta vincente anche per l’Italia?
In un momento storico di fragilità crescente, d’incremento dell’esclusione sociale e contemporanea scarsezza di risorse pubbliche, il fatto che parti di comunità locali si mobilitino, si mettano insieme e si organizzino per analizzare, orientare, gestire parti di spazio e di “welfare” è una grandiosa opportunità. L’approccio freireiano ci aiuta tutti ad assumere con consapevolezza i problemi collettivi, a leggerli e interpretarli con coscienza critica e ad assumere la responsabilità e il coraggio di costruire delle soluzioni condivise. Arriviamo da oltre vent’anni d’influenze culturali che ci hanno “allenato” ad attendere che qualcun altro risolva per noi i nostri problemi del vivere comune. Si è creata un’attesa dell’”evento salvifico” esterno a noi. Occorre cambiare prospettiva. Occorre sapere che quell’evento salvifico è arrivato. Quell’evento siamo ognuno di noi, insieme, oggi.