(di Rinaldo Felli) – 20 giugno 1980, un giorno come tanti altri, un venerdì con le sue solite utopiche attese per il fine settimana. Neanche la solerte Wikipedia lo annovera tra le date da citare e probabilmente la Storia, quel venerdì di 40 anni fa, l’avrebbe schifato se non fosse stato per il film proiettato in prima mondiale nei cinema della città dove era ambientato: Chicago. Quel film era “The Blues Brothers”, il cult-movie per eccellenza, anzi per definizione, visto che la leggenda attribuisce l’origine del termine proprio all’occasione.
Gli anni ’70 avevano lasciato prevalentemente ricordi drammatici, le speranze sbocciate nel ’68 per un mondo più giusto, peace and love, erano affogate in un fiume di droga che aveva spesso annientato i principali protagonisti di quegli anni o si erano trasformate in rabbia sociale coagulatasi spesso in tragica lotta armata.
Sono gli anni dell’IRA e del Bloody Sunday in Irlanda del nord, del Settembre Nero e dell’attentato alle Olimpiadi di Monaco, del colpo di stato in Cile ed in Argentina, della guerra del Kippur, dello scandalo Watergate, della crisi petrolifera e della conseguente austerity, sono gli anni che nel nostro paese verranno definiti “di piombo”.
La voglia di cambiamento, di benessere in quel giugno 1980 si respira ovunque e pochi mesi dopo la fiuterà, con rapace intuizione politica, Ronald Reagan neo eletto presidente della Repubblica a stelle e strisce. Ma quella voglia irriverente di ribellione, di rompere gli schemi, di “vedere la luce”
è anche il cuore del film diretto da John Landis e forse anche il segreto del successo mondiale che ebbe e che continua a riscuotere a quarant’anni da quell’anonimo 20 giugno.
La storia dei fratelli Blues ha origine qualche anno prima, nel 1976, quando John Belushi e Dan Aykroyd, indossando un’improbabile costume da api, cantano al “Saturday Night live” un vecchio successo blues: “I’m a King Bee”.
Due anni dopo li ritroviamo a cantare “Soul Man” vestiti con la loro celeberrima divisa: occhiali Ray-ban Wayfater, cravatte lunghe e strette, cappello e vestito total black.
Dan Aykroyd e John Belushi si erano inventati, forse inconsapevolmente, un canone di eleganza a cui ispirarsi.
E mentre nel mondo imperversavano “Dancing Queen” e “Night Fever” loro iniziano a mietere successi live e vendere dischi incidendo cover soul e blues.
Il blues era una passione di Aykroyd mentre Belushi preferiva i Led Zeppelin, i Black Sabbath. Ma un giorno Aykroyd riuscì a fargli ascoltare dei pezzi convincendolo che tutto ciò da lui finora ascoltato era nato da quella musica nera. Un vero colpo di fulmine e come tale divenne travolgente, quasi un’ossessione per entrambi.
In seguito all’inaspettato successo ottenuto Aykroyd lanciò l’idea di costruire un film sui loro due personaggi e ne parlò con John Landis che all’epoca faceva parte dell’entourage della band.
La Universal, memore del grande successo che nel frattempo John Belushi aveva ottenuto in “Animal House” diretto proprio da Landis, fiutò l’affare e riuscì a strappare i diritti alla Paramount.
Il boss della Universal stimò per la produzione del film la ragguardevole cifra di 12 milioni di dollari. Ne spese più del doppio. Il costo del film fu di oltre 27 milioni di dollari.
A far gonfiare il budget concorse subito lo stesso Dan Aykroid. Era la prima volta che scriveva una sceneggiatura e si presentò con un tomo di oltre 300 pagine zeppo di inutili dettagli. Praticamente inutilizzabile.
Fu Landis a rimettervi mano e ad ottenere lo scritto definitivo ma tutto ciò comportò in totale 6 mesi di lavoro.
Una grande mano a far tardare ulteriormente le riprese del film, e conseguentemente a far lievitare le spese, la diede John Belushi con i i suoi festini a base di droghe ed eccessi di varia natura.
Fu trovato spesso in stato di semi-incoscienza nella sua roulotte e arrivò anche allo scontro fisico con Landis quando quest’ultimo lo beccò con il naso nella coca e gliela buttò nel gabinetto.
Ultimo protagonista indiretto dell’esplosione dei costi fu il sindaco di Chicago con la sua decisione di dare carta bianca alla produzione. Gli straordinari inseguimenti di automobili girati lungo le strade di Chicago ed all’interno di un mall abbandonato avvalsero al film il record di 103 autovetture distrutte,
la distruzione di migliaia di articoli acquistati per la scena del centro commerciale ed il pagamento di una sonora multa da parte dell’Universal a favore dei proprietari del mall per i danni arrecati alla struttura.
Ma quelle scene, riprese dallo stesso Landis nascosto all’interno della magica Bluesmobile (ne utilizzarono ben 12 identiche), fanno ormai parte della storia del cinema.
Come anche di quella storia faranno sempre parte la colonna sonora e le indimenticabili partecipazioni di Ray Charles, Cab Calloway, Aretha Franklin, James Brown, John Lee Hooker (peraltro, tranne Ray Charles, tutti in grave crisi professionale a causa dell’imperante discomusic), la compianta Carrie Fisher (all’epoca fidanzata di Aykroyd) per la prima ed ancora unica volta di Steven Spielberg.
L’incasso del primo weekend di programmazione è da sempre la cartina di tornasole per capire l’esito commerciale di un film.
The Blues Brothers incassò la modesta somma di 5 milioni di dollari, quasi un flop. Il film non piacque a buona parte della critica americana, fu anche boicottato per la forte presenza di artisti di colore e perché parlava di musica nera.
Ma quando il film iniziò a girare il mondo le cose cambiarono radicalmente.
Il film che era costato molto più del previsto portò alle casse dell’Universal molto più dello sperato: 115 milioni di dollari.
Sfogliando la bibbia del cinema “Il Mereghetti”, alla voce “The Blues Brothers”, troverete la seguente definizione: “Assolutamente geniale”.
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