Se ai tempi Francesco De Gregori e Antonello Venditti fossero passati sotto le grinfie dei giurati di “X Factor” o di “The Voice”, non avrebbero potuto riscuotere più di quindici minuti di celebrità.
Non perché i nostri non abbiano doti musicali eccezionali o una poetica d’avanguardia – ce ne fossero! – ma perché oggi non si avrebbe tempo per narrare strane storie del tipo “Sora Rosa” o dell’ancora più impalpabile “Signora Aquilone”. Nel 1972, però, di quelle storie – che poi sono le storie di due ragazzi nati e cresciuti in altrettanti quartieri piccolo-borghesi della Capitale, – ce n’era bisogno. Erano quelle storie piccole ma definitive, non soltanto possibili e immaginabili ma allora persino realizzabili.
Così è nato il progetto “Theorius Campus”, un disco attribuito appunto ai “Theorius Campus” (a proposito: come ricorda lo stesso De Gregori, “Il titolo del disco non significa nulla”) che non sono mica un gruppo musicale ma un duo formato proprio dagli allora esordienti Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Due ragazzi, poco più che ventenni, cui l’Italia di allora – l’Italia reduce dal suo boom economico – poteva destinare qualcosa di meglio di quindici minuti di finta celebrità.
Amici per la pelle, figli di buona famiglia, i nostri poterono seguire i propri sogni indirizzando la loro passione per la musica attraverso un disco che a oggi appare, per molte ragioni, quasi leggendario. Registrato allo Studio 38 dell’Apollo di Roma grazie alla casa discografica di proprietà del celebre Edoardo Vianello e pubblicato dal produttore Vincenzo Micocci (quello della caustica “Vincenzo e Milano” di Alberto Fortis), il progetto “Theorius Campus” nasce per volere di Lilli Greco. Ascoltando alcuni pezzi che l’inedito duo aveva scritto a quattro mani durante un viaggio in Ungheria, la Greco decide di “confezionare” un progetto musicale profondamente diverso da tutti quelli che giravano in quegli anni per la capitale. L’idea vincente fu di arrangiare le canzoni “all’inglese”. Dunque: Derek Wilson alla batteria, Dave Summer alla chitarra elettrica, Donald Meakin all’acustica, il cantautore Giorgio Lo Cascio alla 12 corde, Mike Brill al basso, Maurizio Giammarco al flauto. Naturalmente il pianoforte è quello di Venditti e la chitarra folk di Francesco De Gregori.
Il risultato è un disco acerbo e forse fin troppo eterogeneo. Questo perché non sempre il tutto è più grande della somma delle sue parti.
La partenza di “Theorius Campus” è affidata al miglior Venditti: “Ciao Uomo” è un lungo percorso introspettivo in cui un Antonello-astronauta si rivolge a Dio. “Signor capitano qual è la rotta, qual è il destino del nostro viaggio?”, chiede. Oltre ai ripetuti riferimenti esistenziali, il pezzo sembra contenere anche allegorie politiche non propriamente velate. Venditti appare subito un virtuoso del pianoforte; la sua voce è cristallina, intensa, popolare. La forza espressiva delle sue liriche è massima. Risulta di certo più diretto del compagno.
De Gregori, dal canto suo, gioca ad essere più gitano e inafferrabile attraverso quella poetica simbolica che lo renderà celebre negli anni a seguire. Se fosse un confronto, se fosse una sfida, se stessimo a “X Factor” non ci sarebbe partita: Venditti passerebbe il turno e De Gregori si limiterebbe a postare sul proprio profilo Facebook il video dei suoi 15 minuti di triste celebrità. Per fortuna non è così, e seppure a volte evanescente e fin troppo “intellettualistico”, De Gregori riesce a farsi ascoltare e a dire la sua. Certo, non parla come Venditti: i suoi amori sono troppo allusivi, le immagini enigmatiche come nello splendido ritratto bucolico di “Signora Aquilone”, nella soffusa e onirica “Dolce signora che bruci” (cantata in coro con Venditti) o ne “La casa del pazzo”, scritta insieme a Lo Cascio.
Antonello Venditti sembra essere già all’apice della sua poetica, ha già trovato un suo stile, la sua forma d’espressione privilegiata. “Theorius Campus”, infatti, è soprattutto il disco di quel ritratto incantevole e oggi fin troppo inflazionato che è “Roma Capoccia” (cui De Gregori partecipa attraverso gli arpeggi folk della chitarra) e dell’altrettanto famosa “Sora Rosa”, un’invettiva poetica e popolare contro individui spocchiosi e i sempre presenti malcostumi sociali. La canzone “Sora Rosa”, tra l’altro, era già nota al pubblico poiché registrata da Edoardo De Angelis nel suo disco “Il paese dove nascono i limoni” (ndr).
Per quanto mi riguarda, però, “Theorius Campus” è anche il disco della soffusa “In mezzo alla città”, brano scritto da De Gregori – non poteva essere diversamente con le citazioni di Leonard Cohen e Charlot – e cantato dai due amici-cantautori nello stile Simon & Garfunkel. La copertina di “Theorius Campus” è scelta da Vincenzo Micocci e raffigura “Ofelia” (personaggio dell’“Amleto”) in un ritratto del pittore inglese John Everett Millais. È una specie di Signora Aquilone cullata dalla corrente di un fiume e ricoperta da leggiadri fiori di campo. Poetica d’altri tempi.