Da oggi b-hop propone ai suoi lettori, per accompagnare le calde giornate estive, racconti brevi o lunghi (a puntate) all’insegna della bella scrittura, da scorrere sullo smartphone o sul tablet dovunque voi siate, in dolce relax sulla spiaggia, in campagna o sui monti. O anche in città. Perché no? Buona lettura!
Lo sapevo, lo sapevo. Stavolta tocca a me, io, lo stambecco del Gennargentu, il muflone della Valle Stretta. Neanche andato sulla branda, che il Boss mi strizzerà l’alluce e mi dirà: “Stambecco, arzate, ‘namo a vedé le stelle!” Mi tirerà giù dalla branda e mi trascinerà fuori, dalla casa alpina. Però, che onore, sono solo due anni che vado lassù, oltre Melezet, alla casa Alpina di Pian del Colle, eppure mi sono subito sentito responsabilizzato. E l’aver chiuso la fila, l’altro giorno mi ha veramente stupito e inorgoglito. Certo che stare qui, con tanti amici ed amiche di tutta Italia mi fa pensare a cosa tutti questi anni di “Ragazzi Nuovi” mi abbiano dato. Il senso del ritrovarsi insieme per condividere un cammino spirituale, ma anche il senso fresco dello scoprire sempre cose nuove, sorprese, in me e negli altri. Essere “lo stambecco del Gennargentu”, però…
“Stambecco, pija lo zaino cor pane, che magnamo solo se arrivi tu. E stai ultimo”. Stare ultimo, in montagna, vuol dire regolare il tuo passo a chi è in difficoltà, fermarti per aiutare i più piccoli e deboli, farti carico del bagaglio degli altri ed andare su, col passo altrui, che spesso ti spezza il fiato, ti fa stancare il doppio, ti costringe a staccarti dal resto del gruppo e farne uno che arranca soffiando, sudando, gemendo. Stare ultimo, chiudere la fila, come a Tour de France o sulle rampe dello Stelvio. E se qui sono i tornanti verso i pratoni sotto l’Aguille Rouge o verso il brullo e corrosivo Mont Tabor, poco cambia. L’illusione dei pratoni dolci e dei fiumiciattoli gorgoglianti non è altro che un avviso: la bellezza si paga. Ed allora zaino in spalla, spalle alte, passo ritmato, e sguardo sereno, che prima o poi si arriva in cima.
E se il prima diventa molto poi, non importa: perché tu porterai anche l’ultimo a dominare dall’alto quel paradiso. Non ci sono grazie, non ci sono riti di magnificenza, non c’è un premio. Ci sarà solo il sapere d’esser giunti in cima tutti, chi più, chi meno stanco. E l’idea di un panino con la lonza ed un bicchiere di barbera sapido e pastoso sono il giusto guiderdone per tutti i camminatori. Altro che storie. Altro che sogni, qui sono mazzate continue. Eccolo, l’alluce già trema. “Stambecco… ‘namo a vedé ‘e stelle, arzate….”. E non ha ancora finito di parlare che già ho i piedi a terra. Mi muovo come un automa, gli occhi impastati, le gambe molli dal poco sonno, la pasta e facioli con le cotiche ancora in movimento tellurico e forse quel bicchiere di troppo di grappa non mi fanno comprendere se ancora sogno o se veramente sto uscendo dalla casa scalzo, alle tre di notte con 6 gradi sopra zero.
“Stambeccoooo… vieni vieni, guarda che spettacolo!”, mi dice il Boss tirandomi per i capelli. “Guarda, respira forte e dimmi: saliamo sull’Aguille Rouge, eh, si sale eh?!”, sembrava un bambino con davanti una pentola di crema e tanti savojardi da inzupparci, mentre mi contorceva il braccio. “Saliamo…. Sì saliamo”, e piano piano, gli occhi si aprono a quello spettacolo, alte, luminose, numerose come non mai, le stelle sembravano disegnare in cielo la scritta “Partiamo con voi”. “Stambecco, dai, vai a preparare il caffè e poi fai il giro a svegliare tutti. Alle Principesse ci penso io”. Così il Boss chiamava le ragazze, le Principesse, union di giovani rampanti bellezze allo sbaraglio e mature matrone di varia provenienza, che si ergevano spesso a seconde madri, materne dispensatrici di consigli, e volendo, materne dispensatrici di coccole, laddove i baldi giovinastri risvegliar sapevano antichi e recenti splendori di trappole amorose e di schermaglie seducenti. E le Principesse, riluttanti all’appello dolce e flautato del Boss, grugniscono all’unisono, soffiano il loro sconforto all’idea di doversi nell’ordine: svegliare, comprendere chi e dove sono, ricordare il loro nome, star male alla loro fiatella mortale, iniziare a ridere per l’eterna ritardataria che, russante imponente, ha condizionato le loro misere 4 orette di nanna, stendere e sgranchire le ossicine, e dirigersi come condannate a morte prima a fare la pipì, indi a fare colazione. La sorpresa non è mai tale fin quando non vengono apostrofate dal Boss con una risata “Su, Principesse, vestitevi che fra dieci minuti partiamo, voglio vedere l’alba ai pratoni”.
L’alba ai pratoni voleva dire passi lunghi e ben distesi, un piano d’attacco concentrato, verso la meta prima che il sole sciolga la testa, e in tanti siano impegnati ad avere visioni di madonne e santi vari svolazzanti e poco impietositi davanti all’immane fatica della allegra compagnia. E tra un anàtema ed un lieve smoccolamento dissimulato, la balda congregazione di fulgidi avventurosi alla conquista della gloria sulle scoscese pendici dell’Aguille Rouge, alle 3,45 stava ritta e pronta alla pugna.
E nel silenzio, tra il luccichio delle stelle, solo si spande il suono delle suole degli scarponi che sgranocchiano centimetri e metri, tra sassetti e sassoni, siepi di rovi di more e filari frondosi e freschi. Il loro suono, smossi dal vento d’aurora, sembra quasi un soffio lieve che spinge i camminatori silenti nelle prime rampe sudate. Tra un ansimare che lentamente fa posto ad un respiro lento e modulato, e il calpestio ritmato delle piccozze e degli scarponi, la fila si allunga ed in coda qualcuno inizia a staccarsi.
“Vai stambecco, adesso tocca a te, accoglili nelle tue braccia e che il loro passo divenga il tuo”. Tanto, senza di noi, nessuno mangerà. Ma ce l’avete presente il panino con la lonza affettata lassù, sulla punta dell’Aguille Rouge, un altro sapore!