di Agnese Malatesta – E’ in un momento ben preciso, ancora incredibilmente vivido, che la piccola Liliana, 8 anni appena, diventa ‘l’altra’. Era un giorno di settembre del 1938.
“Ero a tavola con i miei nonni e mio padre. ‘Non puoi più andare a scuola. Sei stata espulsa’, mi dissero. ‘Perché, perché, perché? Chiesi’. ‘Perché siamo ebrei e ora ci sono nuove regole’.
“Ricordo gli sguardi di chi mi amava. La mia piccola vita fu interrotta quel giorno. Da allora tutto il mondo mi vede come una diversa. Ancora oggi mie care amiche, per niente antisemite, quando parlano di me aggiungono ‘la mia amica ebrea’”.
A 90 anni, la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla violenza nazista nei campi di Birkenau e Auschwitz dove è stato ucciso l’amato padre, chiude fra i ragazzi con la sua ultima testimonianza in pubblico (trentennale esperienza nelle scuole perché la Memoria non si perda), fra quelli che lei chiama ‘i miei nipoti ideali’.
E’ una sorta di testamento spirituale, il suo, come in un ideale passaggio di testimone a loro che sono ‘fortissimi’, per non dimenticare, perché l’odio non sia humus di vita.
Lei, ‘nonna ideale’, ha scelto un luogo-simbolo per l’addio pubblico: ha scelto Rondine, la Cittadella della Pace, ad Arezzo, che ospita da 26 anni ragazzi di paesi in guerra per educarli al rispetto, trasformando i loro traumi in percorsi di dialogo.
Ad ascoltarla qui, non solo gli alunni di Rondine e 150 ragazzi giunti da tutta Italia ma le istituzioni a più alto livello (la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, il presidente della Camera, Roberto Fico, il premier Giuseppe Conte e diversi ministri). In collegamento le scuole d’Italia.
Lei sul palco, dietro una cattedra col drappo rosso, proprio come un’insegnante parla di ciò che sa senza averlo studiato sui libri ma vissuto in prima persona.
“Nel mio racconto – premette – c’è pena, c’è ricordo struggente di quello che ero, ormai non ho più lacrime. Ho bisogno di lasciare andare la ragazzina che ero. Non voglio più ricordare, non voglio più soffrire”.
E le parole arrivano, a braccio, con la pacatezza e la signorilità che le sono proprie; il dolore sa trovare le parole giuste e sollevare l’orrore e il disgusto dei violentatori.
Ripercorre quegli anni Liliana Segre, lucida, a tratti si sofferma, pensa, riprende a parlare, continua. Alla fine la commozione, fra gli applausi, “io che non piango mai…”.
Dopo l’espulsione da scuola, “cominciano gli anni della paura”, la convinzione che “noi piccola famiglia italiana, con due nonni, non saremmo stati toccati”.
La piccola Liliana, che non aveva la mamma, fu nascosta a casa di amici: “non capivo perché dovevo stare lontano dalla mia famiglia. Non ero neanche gentile con loro. Quando mio padre veniva a trovarmi lo supplicavo di portarmi via”.
Fuggì col papà quando aveva 13 anni, verso la Svizzera, dove entrarono per essere, nel corso di una giornata, respinti indietro “con disprezzo”.
“Ricordo bene il gesto di mio padre che buttò nel fango della montagna” la collezione di francobolli che sarebbe dovuta servire per vivere: “aveva capito che non c’era più speranza”.
“Sono stata clandestina, so cosa vuol dire essere respinta,
incontrare un uomo che risponde agli ordini”.
Quindi l’arresto e i 40 giorni passati al San Vittore in cella col papà, fra “impotenza e abbracci”.
“Ragazzi – consiglia ‘nonna’ Liliana – non pensate che i vostri genitori siano sempre forti. A volte siete voi più forti. Lui capiva che saremmo stati deportati, sapeva che non poteva salvare il suo tesoro. Quando lui rientrava dagli interrogatori, dopo ore che ero stata da sola, diventavo vecchia, lui era mio figlio. Ero la sua mamma, lo abbracciavo. Ma ero felice perché ero con lui”.
Gli ultimi uomini incontrati, prima della deportazione, sono stati i detenuti di San Vittore, “poi per due anni incontrai solo mostri. I detenuti ci lanciavano mele, arance, sciarpe. ‘Dio vi protegga’, ci dicevano.
Eravamo un lungo corteo, 605 persone. Ritornammo in 22”.
Il viaggio sui vagoni del treno e l’arrivo nei campi. “Non capivo, ero solo terrorizzata, ero attaccata al mio papà, gli sorridevo. Su quella banchina mi separarono da lui. Lo vedevo da lontano, ci salutavamo. Finché non lo vidi più ma non lo sapevo. Ero come pazza, non capivo niente”.
Liliana e le altre appena arrivate consideravano delle pazze le donne che raccontavano loro della presenza delle camere a gas:
“noi ancora caldi degli abbracci” dei nostri cari, “non credevamo possibile quanto dicevano”.
“Ma cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome. Sarete un numero, ci dissero e ce lo tatuarono sul braccio. Il mio, 75190, dopo tanti anni ancora si legge’. Poi la rasatura, la divisa a righe, il fazzoletto: diventammo “prigioniere schiave”. E violenze tante violenze.
Nessuna amicizia al campo: “quando si ha solo il proprio corpo e si ha paura di morire si diventa disumani, proprio come vogliono che diventiamo. Io non sono stata generosa, né ho ricevuto generosità. Giorno dopo giorno sono diventata egoista. Io ho scelto la solitudine. Avevo paura di tutto. Estraniarsi era una scelta di vita”. L’unica vicinanza, le italiane, unite dalla lingua.
Liliana Segre lavorò in una fabbrica di munizioni, “sono stata fortunata”. Lì i primi tempi chiese agli uomini di suo padre ma poi smise. Tre volte la giovane si trovò di fronte alla selezione. Tutte superate, “per caso. E’ per caso che sono viva”.
Un ricordo non l’ha mai lasciata. Riguarda una sua capo squadra, una francese, si chiamava Janine. “Aveva perso due falangi nel macchinario della fabbrica. Durante una selezione, cercò di coprire l’amputazione con uno straccio. Io ero davanti a lei e passai. Lei no. Quando capì che la stavano bloccando non mi fermai, non la salutai, non feci il suo nome, non le dissi fatti coraggio. Sono stata orribile. Janine è stata una figura centrale per me. E’ legata al mio aver perso ogni dignità. Ero solo una prigioniera che si era salvata in quel momento e non mi importava altro”.
I nazisti? “Branchi di bulli, si sentono di razza superiore. Ma quale razza, quella umana? No, non erano umani”.
Persone che “prese da sole hanno paura e chiedono poi di essere messi in isolamento” ha osservato Segre riferendosi al caso di cronaca di Colleferro.
Gennaio 1945, la Marcia della Morte. Mesi di cammini, chilometri percorsi: “ragazzi, non date la colpa agli altri dei vostri insuccessi. Gli adolescenti sono più forti di tutti, hanno la forza della vita e delle scelte. L’ho visto cosa vuol dire una gamba davanti l’altra. La fatica, la fame”.
La fame, appunto. “Eravamo bestie, brucavamo. Un giorno abbiamo trovato un cavallo morto, con i denti e le unghie l’abbiamo mangiato. Anch’io lo feci. Una scena orribile. Eravamo morte dentro ma volevamo vivere”.
La svolta comincia da un incontro con dei contadini francesi. “Ci chiesero ‘chi siete?’”. Il racconto si ferma, Liliana fa una lunga pausa, c’è un fermo immagine.
La commozione ancora oggi la prende tornando a quel primo contatto umano dopo anni, un incontro “con la pietas”.
“Mi ero nutrita di odio e vendetta lasciando la mano sacra di mio padre, ero diventata un’insensibile, ero diventata quella che volevano”.
Nessun perdono per i suoi aguzzini: “No, non ho perdonato, non è possibile, e non ho mai dimenticato”.
E quando una volta libera, Liliana ebbe modo di usare una pistola contro un ufficiale tedesco, lei non sparò: “Quello è stato il momento in cui ho capito che non ero come i miei assassini.
In quel momento sono diventata la donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad oggi”.
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